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GLI EBREI

 

 

 

     I re che dicono salam sono sconfitti…

      Devastato è Israele, il suo seme non è più;

     la Palestina è diventata una vedova per l‘Egitto,

dice una stele eretta dal faraone Mernepthah nel 1225 ca. a.C.

 

In Egitto, gli Ebrei captivi e perseguitati, lavoravano nella fabbricazione dei mattoni, sotto dure condizioni di schiavitù. Emarginati dal faraone, forse a causa della lebbra svi­luppatasi nella loro comunità, o perché volevano allontanarsi per un po’ di tempo dal la­voro per esigenze religiose, o per altro ancora, essi, esaltati dal continuo e cocente deside­rio della loro terra lontana, un giorno si ribellano alle imposizioni del faraone e, guidati da Mosè, fuggono dall’Egitto.

L’Esodo ha riscontro storico. Gli Ebrei ritornano in Palestina, nella terra di Canaan, che l’Eterno aveva promesso alla progenie del patriarca Abramo, originario di Ur (Cal­dea), nell’intento di fondare una nazione, quella del popolo di Dio, Israele: degli Ebrei (che vuol dire genti di là del fiume – il Giordano -) o Giudei (da Giuda, nome della più potente tribù).

Il paese di Canaan è passato alla storia per la fertilità della sua terra, abilmente colti­vata dai suoi abitanti: su terrazzamenti, artificialmente creati sulle sue aride colline, cre­scevano lussureggianti ulivi il cui olio era una delle merci più esportate.

Sebbene la Giudea fosse in gran parte siccitosa e petrosa, le vallate situate sulle spon­de del Giordano erano talmente fertili da far dire a Varrone che nei dintorni di Gadara la terra rendeva il cento per uno; a sua volta Strabone dava rilievo all’abbondanza delle pro­duzioni della Giudea di ogni cosa necessaria alla vita. (Varrone, De Re Rustica, I 44, 2. Cfr. il Vangelo di Matteo, XIII 8, nella parabola di Gesti, in cui si dice che le terre migliori rendevano il cento per uno; Strabone, XVI 756; cfr. anche Te­ofrasto, Historia Plantarum, III 15)

Punto cardine della coltivazione in Palestina era che ogni sette anni – l’anno sabatico -venivano proibiti tutti i lavori dei campi e la raccolta dei frutti.

Gli Ebrei, in previsione del settimo anno (analogia col settimo giorno di riposo del Creatore), dovevano, nel sesto anno far riposare la terra, e, tenuto conto dei mancati rac­colti avvenire, accumulare provviste sufficienti per altri tre anni. (Bibbia: Levitico, XXV 1-5 e 20-21) La densità della popo­lazione ebraica era molto alta, ma questo non impediva la cospicua esportazione di pro­dotti agricoli, in particolare dei suoi rinomati oli e vini.

La coltura della vite era seconda­ria a quelle dell’ulivo e del fico. La dieta dei Palestinesi non si discostava da quella egi­ziana; le oche e le anitre erano però sostituite dalle carni bovine e ovine, le sole ammesse. Anche per gli Ebrei, come per gli Egizi, valeva la proibizione d’usare grassi animali per condimento dei cibi. Erano invece molto apprezzati l’olio e il sale.

Si cibavano, particolarmente nelle ricorrenze religiose, di pane azzimo, senza lievito, fatto di farina, olio, con o senza miele, a forma di schiacciata, cotto su pietre roventi.

Molta importanza era data al pane; difatti in ebraico le parole pane e cibo sono sino­nimi. (Da Storia della Tecnologia, vol. I p. 275, cap. Chimica, Culinaria, Cosmetica di R. J. Forbes)

Un’ antica cerimonia veniva praticata ogni sabato presso gli Ebrei. Verso sera, al com­parire delle prime stelle, ogni padre di famiglia accendeva una lampada a due lumi e pre­parava deghi aromi e del vino.

Si cantava e si recitavano preghiere al lume della lucerna, tra gradevoli profumi, e tutti assaggiavano il vino augurandosi l’un l’altro una buona set­timana.

La festa era detta Abdallah, separazione, perché separava un sabato dall’altro (Noel).

In Palestina l’ulivo selvatico aveva il nome di sait e quello domestico di zait; (Hamilton, Botanique de la Bible, p. 80. Cit. di A. Aloi in “L’Olivo e l’OIio”, Milano, 1892, p. 3) di que­st’ultimo le varietà, a noi tramandate, sono solo cinque; una di esse, detta syria, perché proveniente dalla Siria, era conosciuta a Roma. (Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XVII 7,67)

Al tempo di re Salomone, nella cui reggia il lusso e il superfluo erano di norma, non solo vi si mantenevano migliaia e migliaia di uomini e di cavalli, per servizio di corte e d’ armi, ma i magazzini di rifornimento erano sempre pieni.

La costruzione del tempio di re Salomone, cui tutti gli Ebrei avevano contribuito, su invito dello stesso re, stupiva particolarmente loro stessi, abituati com’erano a venerare Geova in piccoli santuari, anche su rozzi altari, apprestati lì per lì sui colli, in aperta cam­pagna.

Il tempio era una meraviglia: il rivestimento in oro vi era profuso dappertutto, sulle travi, sui candelabri, sulle lampade, sulle porte.

Dalla Bibbia sappiamo che erano riservati ai servi – addetti ad abbattere e a tagliare il legname – oltre al grano e all’ orzo, 20.000 bati (un bato = ca. 1 32.5) di vino e altrettanti di olio.

La porta d’ingresso del santuario era in legno d’ulivo, scolpita con figure di angeli tra fiori e palme.

Nel tempio vi erano due statue, raffiguranti due cherubini con le ali spiega­te, a tutto tondo, in legno d’ulivo, alti 10 cubiti (m 4.5 ca.) e di altrettanta apertura d’ali, disposti in modo tale che “l’ala del primo toccava una delle pareti e l’ala del secondo, l’altra parete; le altre ali si toccavano l’un l’altra con le punte, in mezzo alla casa”) Salo­mone ricoprì d’oro le sculture.

Di tale meraviglia non è rimasto nulla, distrutto come fu il tempio, prima da un ter­remoto, poi, definitivamente, dall’imperatore Tito, per cui non sappiamo più nemmeno dove venne costruito.

Ad ogni epoca di ricchezza, che porta con sé un fatale strascico di povertà dovuto allo sfruttamento, allo strozzinaggio, alla spietatezza dei rapporti umani, tesi alla conquista del danaro, segue inesorabilmente un periodo di miseria, che purtroppo non si ferma, e, da materiale, diventa anche morale. Così in Israele.

Ai profeti cominciarono ad affiancarsi gli indovini e i maghi. La forza di sopravvivere Israele la concentrò attorno ai suoi libri sacri: nella lettura della sua storia e nei dettami dei suoi patriarchi.

E fu tale principio mo­rale che tenne unito il popolo d’Israele persino nella sua fatale diaspora.

 

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