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I GRECI

 

 

 

La prima civiltà europea che conosciamo a fondo, prima non in ordine di tempo ma di rilevanza, è quella greca i cui primordi hanno per culla ha civiltà che si sviluppo sulle iso­le dell’Egeo, su Creta particolarmente.

E’ un vanto dell’archeologia moderna l’aver riportato alla luce i resti della civiltà crete­se, risalente al 3400 a.C., grazie principalmente a Sir Arthur Evans, che la descrisse in un’opera monumentale “Il Palazzo di Minosse”. (J. Evans “The Palace of Minos at Knossos”, London, 1921-35)

Così egli chiama il palazzo reale di Cnosso, capitale di Creta, l’isola che vantava, se­condo Omero, ben novanta città:

Giace un’isola in mar, che nome ha Creta e, popolata da infinite genti, su novanta città porta corona. (Omero, Odissea, XIX 205-207) 

Minosse – forse non era un nome proprio ma il titolo dei re di Creta – aveva per simbo­lo del potere la doppia ascia, labrys, e, poiché imponeva tasse in natura, riusciva ad im­magazzinare nel suo vasto palazzo (del 1900 a.C. circa) una grande quantità di viveri, tra cui il vino, woinos, e l’olio, elaiwon, che venivano conservati in giare, grandi quanto o più di un uomo.

Questi due nomi, woinos ed elaiwon, ci sono stati trasmessi dai Minoici, gli abitanti di Creta, i quali, dai geroglifici dei vecchi tempi, erano passati ad un più semplice tipo di scrittura, decifrata, nel suo stadio secondario – lineare B – , come una forma arcaica di greco. (Renfrew, L’Europa della Preistoria, Bari, 1987, p. 201)

I trasporti dei vini e degli oli venivano effettuati con otri di pelli di capra e ogni carico veniva attentamente segnato su tavolette di creta dai funzionari del palazzo.

I Minoici non solo conoscevano l’uso delle molae per ricavare il vino e l’olio, ma pos­sedevano anche delle raffinerie per l’olio. Erano essi di razza mediterranea, simili, nel co­lore della pelle, ai Fenici; le donne possedevano bellezza e grazia eccezionali e gli uomi­ni, loro estimatori, amavano circondarle di oggetti raffinati.

Le loro stanze, di sera, venivano illuminate con lampade ad olio, di squisita fattura, re­alizzate in marmo, in terracotta, in bronzo. Con le stesse illuminavano le sacre caverne dell’isola, come ha famosa Grotta di Psicro, dove si recavano in pellegrinaggio, a fare sa­crifici e a lasciare doni votivi agli dèi.

Le ricche stanze del palazzo di Cnosso erano decorate con gioiosi affreschi; tra quelli a noi pervenuti uno ritrae un pittoresco balletto di fanciulle in un uliveto, e un’ altro raffi­gura rami d’ulivo in fibre; (Durant, La Grecia, Milano, 1958, p. 19: “Un affresco di Cnosso ci ha conservato un gruppetto di aristocratiche dame che, circondate dai loro ammiratori, godono lo spettacolo di un balletto eseguito in un uliveto da fanciulle vestite in modo pittoresco”; H. Gannett, Il Passato Ritrovato, Milano, 1965, p. 66) sono tra le più antiche rappresentazioni dell’ulivo, che cono­sciamo.

L’alimentazione deghi antichi Greci era alquanto sobria e comprendeva orzo, grano, legumi, latte, formaggi, miele, vino, olio, verdure, frutta e pesce.

Le verdure, sia cotte che crude, condite con l’olio, non mancavano mai sulla tavola greca, tanto che un commediografo chiamò i Greci mangiatori di foglie. Questa dieta non mutò attraverso i millenni, e, ancora oggi, è indicata come dieta mediterranea.

Ai Minoici e ai Micenei va il merito di aver frenato la pirateria sui mari e d’aver svi­luppato un ricco commercio navale, in concorrenza con i Fenici.

Nel mito, la causa della guerra di Troia risulta essere la bellezza di Elena, esaltata dai suoi liberi costumi, dal mistero delle sue bevande drogate, da quel potere femminile, da maga, fatale per incauti amanti.

In realtà, ai tempi di Agamennone, i Greci, abili commercianti e navigatori com’erano, il motivo per il lungo assedio l’avevano: distruggere il caposaldo di Troia, in posizione privilegiata sulle rotte commerciali, che insidiava il loro primato sul mare.

Troia era in grado di controllare non solo il commercio marittimo da e per l’Egeo e l’Ellesponto, ma anche quello terrestre, e riusciva persino a raggiungere la lontana Cina da cui importava la giada. Inoltre su tutte le merci in transito, come olio, bronzo, vino dall’Egeo e asini, cavalli, oro, argento dall’Oriente, imponeva una tassa. (Durant, La Grecia, Milano, 1958, p. 44)

Relativamente al comportamento dei Greci e dei Troiani nella contesa, passata alla storia come guerra di Troia, si può rilevare che Omero a malapena nasconde la sua sim­patia per i Troiani, per la loro lealtà e dignità.

E oggi questo è tanto più rilevabile perché pare che l’epico conflitto, finora fatto ri­salire al decennio 1194 – 1184 a.C., fosse in realtà avvenuto poche generazioni prima di quella di Omero, vale a dire attorno al 950 a.C., permettendo al poeta di trasmettercene una descrizione attendibile, come del resto traspare dal poema. La scoperta di datazioni storiche errate, riferentisi ai secoli attorno al I millennio a.C., è dovuta ad attenti studi di alcuni ricercatori inglesi (P. James, “Centuries of Darkness”).

Pochi secoli dopo la guerra di Troia, la produzione agricola più redditizia di tutta l’At­tica, e di Atene in particolare, risulta essere quella delle olive, per la gran richiesta del loro olio sui mercati del Mediterraneo. In aggiunta alla legge che proibiva l’abbattimento degli ulivi nell’Attica, Solone (640 – 561 a.C.) ne promulgò una che vietava l’esportazio­ne di tutti i prodotti agricoli, escluso l’olio. (Plutarco, Solone, XXIV I)

Nonostante tale limitazione, nel porto di Atene i traffici erano intensi perché si esportavano, oltre alle ricercate ceramiche attiche, interi carichi navali di pithoi colmi d’olio.

I Greci chiamavano l’ulivo elaia. Teofrasto, Plinio, Aristofane, Isidoro di Siviglia, Er­mippo, Callimaco e Virgilio ce ne hanno tramandate le varietà più note: Drypetes, Echi­nus, Halmades, Ischiades, Kolymbádes (olive da mettere sott’olio o in salamoia), Morìa (l’ulivo nato sull’ acropoli di Atene per volere di Atena), Nitrides (olive da mettere sotto sale), Orchemora (dai frutti molto grossi), Paphia (dall’isola di Pafo, Cipro), Phaulia (la Regia dei Latini), Pityrides, Sicyonia, Stemphylades, Strépte, Trambellos.

Anche le isole dell’arcipelago greco vantavano ottimi uliveti; Delo e Chios erano note, già dal tempo di Talete (639 – 546 a.C.) per i loro begli ulivi; Eschilo chiama Samos elaiophytos, dalle piante d’ulivi e Ateneo ci dice che l’olio di Samos era tra i più chiari e quello di Caria il più adatto per gli unguenti. (Ateneo, Deipnosofisti, II 66 f, 67 a)

Da Marsiglia i coloni greci, grazie al vino e all’olio con cui si erano conquistati la be­nevolenza dei Galli, facevano arrivare in patria metalli preziosi e materie prime. A causa del vantaggioso scambio i Greci non ritenevano necessario favorire in Gallia la coltura delle viti e degli ulivi. (Pais, Storia dell’Italia Antica, Genova, 1988, p. 29)

Ad Atene, a Sparta, in tutte le grandi città, i Greci si riunivano nei ginnasi (da gymnós, nudo), tanto che dagli altri popoli del Mediterraneo venivano chiamati quelli del ginnasio, per ha loro bellezza atletica.

Secondo Solone e Cicerone, il ginnasio era un’istituzione greca, e, secondo Plinio, dall’Arcadia i giochi ginnici si diffusero in tutta la Grecia e giunsero a Roma.

Era il ginnasio un edificio pubblico di grandi dimensioni, suddiviso in tanti reparti. Nel ginnasterion si lasciavano gli abiti; seguivano: l’elaeothesium, l’alipterion, l’unc­tuarium dove si ungevano d’olio gli atleti, prima e dopo le competizioni; la palaestra, propriamente detta, dove si svolgevano i vari tipi di lotta; lo sphaeristerium, per giocare a palla; infine ho stadio, dove si esercitavano gli atleti alla corsa – in terreno semicircolare circondato da gradini per gli spettatori – così chiamato perché il suo diametro, all’origine, era di uno stadio, misura lineare presso gli antichi corrispondente a 185 metri.

I bagni avevano parecchie stanze, con acqua calda e fredda.

Molto importanti erano i portici esterni riservati ai filosofi, ai medici, ai matematici e ai sapienti in genere, i quali, oltre a darvi lezioni, disputavano o leggevano le proprie opere.

La ginnastica era suddivisa in tre specialità: militare, medica, atletica.

La ginnastica militare aveva il compito di rendere più forti ed agguerriti i giovani; dapprima si rivelò un valido coefficiente di vittoria nell’arte marziale, ma, in seguito (I -II sec. d.C.), degenerò in spettacoli lascivi di soldati effeminati.

La ginnastica medica, si proponeva di ristabilire o almeno di conservare ho stato di salute attraverso esercizi da eseguirsi dietro consiglio medico.

Era stato Platone a indicare il medico Erodico come inventore della ginnastica medica perché egli, avendo notato che, con la ginnastica, i giovani godevano, generalmente, di ottima salute, aveva attribuito agli esercizi ginnici simile risultato.

Ippocrate andò oltre, selezionando particolari esercizi ritenuti adatti ad ostacolare al­cune malattie.

La ginnastica medica aveva la sua base nei bagni e nella iatraliptica, l’arte di curarsi con massaggi e unzioni d’olio e d’unguenti.

La terza branca, la ginnastica atletica, metteva in risalto prove di agilità e di abilità in spettacoli pubblici; era ha più rinomata.

Platone era entusiasta della ginnastica atletica, Solone, pur se favorevole, ne sottoli­neava l’elevato costo pubblico, Plutarco la criticava e Galeno (II sec. d.C.) ne stig­matizzava i difetti cui era arrivata ai suoi tempi. Il misogino Euripide riprovava la libertà concessa da Licurgo alle giovani atlete spartane:

 

son troppo abituate

a star fuori di casa in compagnia

di giovani e con essi esercitarsi

nelle palestre e negli stadi, nudi

i fianchi, con dei pepli affatto privi

di cintura, costume che m ‘è parso

sempre indecente.

(Euripide, Andromaca, Milano, 1956, Terzo episodio, p. 203)

 

Aristofane invitava i saggi a star lontano dai ginnasi, dal vino e da altre follie del ge­nere.

Le feste più celebri di Atene erano le Panatenee, una volta chiamate Atenee quando coinvolgevano solo la città di Atene. Si distinguevano in grandi Panatenee, che si svolge­vano ogni quattro anni, nel primo mese del calendario di Atene, detto Ecatombione, corri­spondente alla fine del mese di giugno e al principio di luglio, e in piccole Panatenee, che si tenevano quasi ogni anno, nel mese detto Targelione – da Apollo Targelio, portatore delle primizie dei beni della terra – corrispondente alla fine del mese di aprile e nel princi­pio di maggio. Tutte le città dell’Attica erano tenute a offrire, come tributo a Minerva, un bue, e la carne di questi animali sacrificali era distribuita tra i partecipanti, in grandiosi banchetti pubblici che segnavano la fine della festa.

Le tre gare che si svolgevano in onore di Minerva costituivano, invece, ha parte culmi­nante della festa.

La prima consisteva in una corsa che si svolgeva di sera; in origine podistica, all’epo­ca di Platone era diventata equestre. Ogni partecipante doveva mantenere accesa la fiac­cola, che recava in mano, per tutta la durata della gara.

La seconda era ginnica e si svolgeva in uno stadio apposito dove gli atleti vi parteci­pavano nudi.

La terza gara, istituita da Pericle, era dedicata alla poesia e alla musica: ogni parteci­pante poteva far rappresentare fino a quattro sue commedie (tetralogia). I premi per il vin­citore, erano ma corona d’ulivo e anfore decorate – panatenaiche – piene di ottimo olio che il vincitore poteva portarsi a casa, anche se abitava fuori dell’Attica. (fig. 5)

Solo durante le grandi Panatenee si faceva uscire dal Ceramico, il quartiere dei vasai di Atene, una barca, mossa da ruote nascoste, per trasportare il peplo di Minerva, prezioso lavoro di nobili fanciulle ateniesi, le ergastine, che, per l’occasione, venivano incoronate d’ulivo.

Esse sono raffigurate simili a dee nel fregio est del Partenone.

Il peplo bianco, con ricami in oro rappresentanti mirabili scene di dei e di eroi, issato come fosse una vela sulla nave, con il seguito di cittadini recanti in mano rami d’ulivo, dopo aver percorso le strade di Atene, veniva portato, attraverso la via Panatenaica – che in realtà permetteva solo il passaggio di cinque persone sulla stessa linea – sull’Acropoli, nell’Eretteo, alla dea Atena, la cui antica statua era in legno d’ulivo. (Apollodorus, III 14,6. Cfr. Pausania I 26,6) Sede di vari arcaici culti l’Eretteo era un tempio che si trovava di fianco ml Partenone; all’interno vi splendeva una lampada d’oro, eseguita, sul finire del V sec. a.C., da Callimaco, uno tra i più valenti discepoli di Fidia e raffinato orafo; la lampada ardeva, incessantemente, in onore di Mi­nerva.

Il Partenone – con questo nome si designava in Grecia il luogo più appartato della casa, destinato alle vergini – era per antonomasia il tempio della parthenos Minerva o Atena; esso, distrutto dai Persiani, veniva ricostruito, sotto Pericle, in maniera stupenda, in marmo pentelico, e Fidia lo adornava con una statua della dea, in oro e avorio, di ca. 2 m di altezza.

Altra festa popolare in Grecia era quella detta Eiresione.

Il nome eiresione viene collegato alla lana, in greco eiros, ma penso potrebbe essere anche collegato a Eirene, la Pace, figlia di Giove e di Temi. E poi Eirenofora, portatrice di pace, era uno dei soprannomi di Minerva.

Durante ha festa dell’Eiresione, detta anche Pianepsia, i bambini di Atene, cantando il ritornello riferitoci da Plutarco (v.p. 197), portavano in giro per ha città rami di ulivo da cui pendevano bende di lana (una bianca e una purpurea secondo Eustazio), frutta, focac­ce e fiaschette d’olio. Uno di questi adornati rami era portato al tempio di Apollo Delphinios; gli altri erano appesi alle porte delle case dove vi rimanevano fino alla nuova festa, che ricorreva il giorno sette del mese di Pianepsione, secondo il calendario attico (corrispondente alla fine del mese di ottobre e al principio di novembre), giorno del ritorno dall’isola di Creta di Teseo. Fu l’eroe a istituire la festa: in onore di Apollo fece cuocere il cibo rimasto dopo il periglioso viaggio – per lo più delle fave – e appunto dalle fave cotte, pianepsia, prese il nome la festa, che, a sua volta, diede il nome al mese.

Anche a Samo vi era la festa dell’Eiresione: i ragazzi tra i canti, portavano i rami ad­dobbati alle porte delle case annunciando: “Arriva Ploutos” (Burkert, Mito e Rituale in Grecia, Bari, 1987, p. 214), arriva la ricchezza. 

 

Aristofane nei Cavalieri fa dire a un suo personaggio: “Allontanatevi dalla mia porta. Avete rovinato il mio ramo d’ulivo” cioè l’emblema augurale di benessere per l’intero anno.(Aristofane, Cavalieri, Milano, 1953, p. 720, V 729)

 

La festa dell’Eiresione risale ad antiche tradizioni rituali ittite.

Nella festa degli Oschophoria, istituita anch’essa da Teseo e che si teneva in autunno con una processione di efebi recanti grappoli di uva, al vincitore della gara di corsa, che veniva considerato come un re, si offrivano “olio, vino, miele, formaggio sminuzzato e farina”, vale a dire gli ingredienti di quello che si credeva fosse il cibo degli dèi: nettare e ambrosia. (Graves, I Miti Greci, Milano, 1983, p. 317)

La solenne festa detta Daphneforia, che significa portare un ramo d’alloro, introdu­ceva i giochi pitici a Delfi. Anticamente si svolgeva in Beozia, ogni nove anni, ed era ce­lebrata in onore di Apollo Ismenio o Galassio.

Un giovane, tra i più belli e i più nobili, con i genitori ancora viventi, adorno di magni­fici abiti, con la chioma fluente e con una corona d’oro in capo, portava al tempio di Apollo – Sole un ramo, o un tronco, d’ulivo ornato di ghirlande d’alloro, di tante specie di fiori e di splendenti sfere di rame.

Aveva al fianco in giovane parente che recava una verga con ghirlande di fiori; seguiva in corteo di vergini fanciulle che cantavano inni ad Apollo.

Ili portare rami d’ulivo era un rito molto diffuso nella religione greca, sia come fatto collettivo – nelle processioni -, sia come fatto individuale – il supplice che lo reca, avvolto in fasce di lana, agli dèi per impetrare pendono -. Secondo Virgilio il mettere insieme l’olio e la lana derivava dal fatto che, essendo en­trambi morbidi e dolci, potevano bene simboleggiare la pace. (Servio)

Nell’Attica, quando nasceva in bambino, sulla porta di casa si esponeva subito, per proteggere l’infante daghi spiriti maligni, ma corona d’ulivo se maschio o una matassa di lana se femmina. (Buess, I Primordi dell’Ostetricia, Milano 1951, p. 1092)

-La corona era considerata dai Greci come un attributo divino. Le donne in parlamento (Aristofane) prima di parlare si mettevano la corona per dare sacralità al loro dire. Il serto d’ulivo era prerogativa degli ambasciatori che portavano o chiedevano pace. Una coronci­na d’ulivo, che non appassisce mai per volere di Atena, diventa in elemento determinante per far riconoscere a Creusa il figlio lone, avuto da Apollo e portatole via dal dio. (Euripi­de)

E in Grecia, nel regno di Minerva, che Apullon subisce una trasfigurazione e viene in­coronato con il lauro.

L’abbondanza dei frutti dell’ulivo coltivato, caro a Minerva, aveva reso ricca l’Attica e offuscato il valore dell’ulivo selvatico sacro ad Apollo. Occorreva che lo splendore di un simile dio fosse ricompensato consacrandogli una nuova pianta degna della sua impor­tanza. E quale più del lauro?

Ecco allora i Greci ricorrere all’espediente mitologico che vede coinvolta Dafne, il cui nome significa lauro. Apollo, preso da folle passione amorosa per la ninfa Dafne – vergi­ne riottosa che preferisce trasformarsi in una pianta d’alloro piuttosto che soggiacere alle voglie del dio -, disperato per la perdita dell’amata, s‘incorona con i rami del lauro e, da quel momento, diventa Apollo Daphneforo.

In questa veste ci sarà tramandato dalla pittu­ra vascolare (ma sono sempre di lauro le sue corone?). Vennero così definitivamente can­cellate dalla memoria collettiva le barbare radici del dio Apullon.

Ma il ramo dell’ulivo, il ramo d’oro, trasfigurato dagli Iperborei nel vischio, sostituito dai Greci con l’alloro, ritorna nelle stesse feste delle Dafneforie come nucleo centrale: il tronco arboreo, ornato di rami d’alloro, è e rimane il tronco dell’ulivo detto anche “albero di maggio” o “albero di Natale”.(Burkert, Mito e Rituale in Grecia, Bari, 1987, p. 215)

Le fronde dell’ulivo e una tunica purpurea erano gli unici addobbi che Licurgo per­metteva si inumassero insieme ai defunti, nella città di Sparta.

Con Alessandro Magno (356 – 323 a.C.), le cui conquiste permettono alla Grecia gran­di disponibilità in oro, con conseguente massiccia richiesta di beni di consumo, si verifica il più grande sbalzo del prezzo dell’olio, mai registrato prima, vale a dire da quando fu in­ventata ha monetazione, che avvenne in Lidia nel VII sec. a.C..

E, a proposito di monete, possiamo dire che le più belle monete dell’antichità ci pro­vengono dalia Magna Grecia.

Quelle di Taranto, risalenti al 550 a.C., rivelano, già dalie prime emissioni, una squisi­ta fattura del tipo cosiddetto incuso.

Tra le bellissime – che in generale ritraggono il cavallo dai Tarantini tanto amato, per­sino deificato con l’imposizione di corone – vi sono uno statere e una dramma. Lo statere, del 460 – 443 a.C., riproduce Taras (l’eponimo di Taranto) sul delfino; l’eroe tiene nella mano destra una corona d’ulivo.

La dramma, del 300 ca. a.C., ha, da una parte, la testa di Minerva e, dall’ altra parte, su un ramo d’ ulivo, la civetta, cara alla dèa, perché, come il sapiente, riesce a vedere pur nelle tenebre.

Questa dramma aveva circolazione anche tra le città che appartenevano alla “lega ita­liota”, la cui sede era a Heraclea, sul fiume Sin (Evans).

 

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