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GLI ITALICI

 

 

Dagli scrittori classici, che ha decantarono, sappiamo che l’Italia antica era ricca di bo­schi e di corsi d’acqua (Strabone e Dionisio d’Alicarnasso).

Anche il suo clima, favorito da fattori ambientali e temperato in tutte le stagioni, era considerato molto salubre.

Ad eccezione – se ha si può considerare tale – di Catone che deplorava la gravità del­l’aria di Gravisce sulla Costa etrusca, gli antichi scrittori non parlano della malaria, la pe­ste che funestò l’Italia dalla caduta dell’impero romano fino alla seconda guerra mondiale.

Anzi. Di Crotone dicevano che si trovava in una zona saluberrima; quindi è solo nei secoli d.C. che la città e le coste ioniche conobbero la terribile piaga; anche i dintorni di Taranto, almeno fino ai tempi di Annibale, erano considerati salubri, ricoperti com’erano di folti boschi; di contro la pianura padana era in gran parte paludosa e deserta.

Le condizioni di civiltà e di sviluppo delle varie regioni italiane si presentavano al­quanto eterogenee.

Gli antichi abitanti della valle del Po si cibavano di miglio e non co­noscevano né il vino né l’olio.

Anche nelle altre regioni il frumento era pressoché sconosciuto; si usava, oltre al miglio, il farro o l’orzo; la vite, vitis, era un nome generico, valevole a designare qualsiasi vitigno.

 

Il pane – pare che i primi panificatori in Italia siano stati i Piceni – veniva cotto nei for­ni di casa; esso sostituì, ma non completamente né in tutte le regioni, le tradizionali polente o farinate, pultes, di farro o di legumi condite con olio, che erano il cibo quotidiano, sia per i ricchi che per i poveri, di tutte le antiche popolazioni italiche.

Troviamo la torta di farro, miele ed olio, nella cerimonia della “confarreatio”, uno dei tre riti di matrimonio in uso tra i Latini.

Era la cerimonia più antica – pare risalire a Romolo -, la più seguita – particolarmente dai patrizi – e la sola che aveva l’onore d’essere amministrata dal Flamen Dialis – l’albo­galeritus ministro di Giove.

Essa era molto semplice: consisteva nel dividere una focaccia di farro tra gli sposi e i testimoni (anche dieci).

Nei “Parentalia” – riti funebri che si tenevano dal 13 al 21 febbraio – si portavano ai defunti delle pultes, particolarmente di fave, considerate cibo dei morti, insieme a vino, latte e dei filori. Nonostante la sua evidente paganità, era un rito molto sentito e seguito ancora nel IV sec. se troviamo Monica, la madre di S. Agostino, incappare nella repri­menda del Vescovo perché aveva portato sulle tombe dei santi “una farinata, del pane, del vino”

  Sulco redeuntibus altera cena

     amplior et grandes fumabant pultibus ollae

– per gli adulti che ritornavano dai lavori dei campi

vi era una cena più abbondante

e la polenta fumava dai grandi paioli –

                                                                    Giovena   

 

 

stant calices; minor inde fabas, holus alter habebat,

et spumat testu pressus uterque suo

–  due le pentole: nella più piccola le fave, nell’altra le verdure;

bollono entrambe coperte del proprio testo –

                                                                       Ovidio

 

Sono queste le fave e cicorie che, condite con un poco d’olio e di sale, erano il cibo preferito dal dio Romolo; ancora oggi, in varie regioni italiane, particolarmente nella Pu­glia, costituiscono un prelibato piatto popolare.

Molti erano i popoli che abitavano, prima della fondazione di Roma, la felice penisola italica e forse altrettanti erano quelli che desideravano abitarla perché ha sua particolare condizione fisica, così protesa nel mare, invitava a considerarla una terra facile da conquistare.

Furono i Romani a fare la prima unità d’Italia, ed è loro gran merito essere riusciti a riunire in una nazione popoli tanto diversi, com’erano gli Italici, per comportamento, per abitudini, per tradizioni, per lingua, per etnia.

Rutilio Namaziano, poeta latino nato in Gallia nel V sec. d.C., pervicacemente pagano e amante della latinità, dice di Roma:

fecisti patriam diversis gentibus unam.

La fusione avvenne nonostante il perdurare di Singole antiche tradizioni, come, ad es., quella dei Chôni di mangiare in comune, e, forse, i banchetti pubblici dei Romani deriva­rono proprio da quella originaria consuetudine collettiva. Oltre agli Aborigeni, autoctoni del Lazio, che, secondo Dionisio d’Alicarnasso, accolsero tra di loro i Pelasgi, loro con­sanguinei che recavano rami d’ulivo, si considerano gli Umbri, gli Oschi (o Opici da ob­oschi), i Liguri, i Siculi e i Tirreni come le più antiche popolazioni italiane, senza tralasciare i Sardi (se vogliamo seguire Aristotele che pare considerasse i Tirreni e i Cartagi­nesi cittadini di una sola città).

 

I Tirreni, antichi abitanti della Toscana – identificati da Tucidide con i Pelasgi e da Erodoto con gli Etruschi -, erano noti per l’arte divinatoria dei loro àuguri e aruspici, sa­cerdoti addetti all’interpretazione della volontà degli dei; gli àuguri osservavano il volo e la voce degli uccelli, gli aruspici le viscere degli animali immolati. Su uno specchio etru­sco del III sec. a.C., proveniente da Tuscania, è raffigurata una cerimonia d’osservazione del fegato; gli aruspici hanno ai lati due divinità di cui uno è Vortumnus, il principale dio degli Etruschi secondo Varrone, e l’altro, un leggiadro giovane che reca in mano un ra­moscello d’ulivo, si chiama, secondo l’iscrizione, Rathlth, denominazione che, oltre a es­sere di difficile lettura, risulta Sconosciuta.

Solo nove erano i grandi dei degli Etruschi e tra essi ritroviamo Apulu il dio simile all’ittita Apulunas e al greco Apollo. Inoltre, secondo Esichio, Apollo era chiamato, pres­so le popolazioni mediterranee occidentali, Tirreno e, come tale, Rasenna o Rasna – forse Rathlth?.

Potrebbe quindi essere Apollo il giovane dio raffigurato nello specchio?

Quando conquistarono l’Italia, i Romani rimasero stupiti della fertilità delle terre dei vinti: campi di cereali si alternavano a vigneti, frutteti, oliveti e a ampi pascoli, rispettan­do però e mantenendo inviolati i grandi boschi d’alto fusto di cui era celebre la penisola.

Roma, arricchita dalle esperienze agricole dei popoli assoggettati, mette a frutto nuovi metodi di coltivazione, seleziona le migliori qualità ortofrutticole secondo il clima e il terreno per cui, nell’età imperiale, l’Italia diventa un giardino con frutteti, oliveti, vigneti di gran pregio.

Dice Dionisio d’Alicarnasso: “Quale coltivazione di olive supera quella mes­sapica, daunia, sabina?”.

I traffici commerciali degli Italici, fiorenti sulle notte dei Fenici, ebbero grande svi­luppo quando le colonie greche s’insediarono nel sud d’Italia e quando Roma estese il suo dominio sulla penisola.

Poi la crisi e la decadenza di Roma, unitamente al diffondersi del latifondo (diceva Plinio latifundia italiam perdidere), coinvolsero non solo l’Italia ma le province d’oltre­mare. Fu un lento processo che mutò le condizioni economiche e di vita: spopolamento dei terreni agricoli, denatalità, miseria – a causa particolarmente delle tasse – , dissesti per il deprezzamento della moneta, insicurezza, ecc.

Nel primo Medioevo i’Italia si presenta appena sufficiente a soddisfare elementari condizioni di vita.

Le colture raffinate, scomparse altrove, permangono in quelle terre dove il favore del clima ne permette, anche se incolte, ha sopravvivenza; sono queste le terre delle regioni e delle isole del Mediterraneo meridionale.

 

In Puglia, nei dialetti di Taranto e di Molfetta, si è conservata un’antica denomina­zione latina: termite per designare l’ulivo selvatico. Questo nome lo davano i Latini ai rami di ulivo (o di palma) ancora attaccati all’albero, termitds,~ a quelli staccati dali’ albe­no, davano il nome -di spadices. Orazio -ci tramanda:

 

“Numquam fallentis termes olivac”

 

Per gli studiosi, termite, termit “sembra un nome di origine egea”; esso tuttavia pare mantenere i caratteri peculiari dei sostrati mediterranei occidentali.

 

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