
GLI ITTITI
Il Vecchio Testamento ci ha conservato il ricordo degli Ittiti: quando parla di Heth, figlio di Canaan (Gen. X 15); di Abramo che acquista, dai figli di Heth, la grotta presso Hebron (Gen. XXIII); delle mogli ittite di Esaù (Gen. XXVI 34 e XXXVI 1-3); quando dice che abitano la zona montuosa a nord della Palestina (Numeri XIII 29) e ne nomina Ia tribù (Gen. XV 19-21 e Giosuè III 10). Gerusalemme poi viene detta figlia di un Amorreo e di un’Ittita (Ezech. XVI 3).
Ma gli Ittiti, sconosciuti o volutamente sconosciuti – i Greci li ignoravano e gli stessi Ebrei li avevano cancellati come nazione -, estendevano il loro dominio su un vasto territorio, tra il Mar Nero e il Mediterraneo orientale, che i Greci chiamavano “semplicemente anatoli, oriente”.20
La riscoperta dell’impero ittita è storia recente, risale alla metà del secolo scorso e, da allora, sappiamo, attraverso la decifrazione di documenti egiziani e di iscrizioni cuneiformi assire, che il paese degli Ittiti era conosciuto dagli Egiziani come “Grande Cheta” e dagli Assiri come “il paese di Hatti”.21
Gli Ittiti avevano usanze e costumanze simili a quelle degli Assiri e dei Babilonesi. Presumibilmente quindi era in uso anche presso di loro ha ricetta d’empiastro, pervenutaci dalla Mesopotamia e considerata tra le più antiche della storia della medicina: “Ridurre in polvere delle pere e delle manna, versarvi sopra del fondo di birra, strofinare la parte malata con olio e applicare l’insieme”.
Nel paese di Hatti, accanto a una evoluta medicina e a una valida chirurgia, coesistevano insoliti riti magici di propiziazione.
Eccone uno avente ho scopo di far riconciliare due familiari in lite tra loro. Dapprima si sostituiscono gli uomini con un animale: “Essi portano una pecora nera. La maga – la vegliarda — la presenta loro e dice: “La pecora nera sostituisce le vostre teste e tutte le parti del vostro corpo. La lingua delle maledizioni è nella sua bocca e nella sua lingua”. Essa agita la pecora sopra di loro. I due sacrificanti sputano nella sua bocca. Essi uccidono e fanno a pezzi la pecora. Accendono il focolare e la bruciano. Versano miele e olio d’oliva sopra di essa. (La maga) spezza un pane sacrificale e lo getta sul fuoco. Versa inoltre una libagione di vino”.22
Un rito ittita, che trova riscontri nell’Iliade (funerali di Patroclo e di Ettore), è la bruciatura sul rogo del cadavere del re.
“Il secondo giorno, non appena albeggia, le donne vanno allo ukturi (alla pira?) per raccogliere le ossa; esse spengono il fuoco con dieci anfore di birra, dieci anfore di vino e dieci anfore di vahli (bevanda rituale). Un’anfora d’argento del peso di mezza mina e venti sicli (gr. 420 circa) viene riempita di olio fino. Esse raccolgono le ossa con una lappa (cucchiaio) d’argento e le mettono nell’olio fino dell’anfora d’argento, poi le estraggono dall’olio fino e le depongono su un gazzarnulli di lino sotto il quale è posta “della tela fina”.
A tutti coloro che sono venuti a raccogliere le ossa, offrono da mangiare…
Poi nella “casa di pietra”, nella camera interna, dispongono un letto, prendono le ossa dal carro e le depongono sul letto; una lampada [e?… di…] mezzi sicli di peso con olio fino collocano dinanzi alle ossa; e sacrificano un bue e una pecora all’anima di colui che è deceduto”.23
Sigli dei ittiti sovrastano Teshub o Tarhund, il dio della tempesta, ha sua sposa Hebat e Telepinu, loro figlio, il quale, essendo il dio della fioritura dei campi, segue il corso delle stagioni, quindi scompare d’inverno e ricompare a primavera.
Di antica provenienza hurrita, i rituali delle feste ittite in onore di Telepinu, che reca dona agresti, frutta, focacce, fiaschette d’olio, lana, tutti appesi a rami d’ulivo, si ritrovano in Grecia nella festa dell’eiresione, tanto più che da Telepinu pare derivi Delphinios, appellativo di Apollo.24 Inoltre, connesso all’Apollo degli Iperborei è il dio ittita Apulunas, dalle funzioni molto simili a quelle di Telepinu. Il nome Apulunas risente della radice semitica “ulu”, olio d’oliva, cui, secondo Forbes, “ha parola latina oleum e quella greca elaion, probabilmente, potrebbero essere fatte risalire”.
Dice A. Hus: “Si rimane sbalorditi quando si considera il gran numero dei miti greci ha cui origine può essere ittita o derivare in parte dalle leggende ittite”.25
Gli Ittiti amavano molto gli animali e rappresentavano i loro dei in piedi su quelli che consideravano a loro sacri: Tarhund sul toro, Hebat sul leone, Telepinu sul cervo.
Nei templi, oggetto di culto erano non solo le statue degli dei ma le pietre, a forma di stele, che servivano per le libagioni sacre. I sacerdoti, puri nell‘animo e mondi nel corpo, lavavano e ungevano le statue e le portavano vicino alle pietre sacre, ornate di cibi, sulle quali offrivano libagioni di vino, di olio e anche di sangue sacrificale; il rito era accompagnato da musiche e da danze.26
Una cerimonia di libagione ci è pervenuta dall’arte assira. Su un bassorilievo del palazzo di Assurbanipal a Ninive – portato al British Museum da A.H. Layard – si vede il sovrano tra i suoi dignitari versare olio su dei leoni catturati.27
Le libagioni erano frequenti e, prima di prendere importanti decisioni politiche, gli Ittiti brindavano abbondantemente agli dei nell’intento di essere ispirati da loro, attraverso I’ebbrezza.
La civiltà ittita vantava leggi e amministrazioni giudiziarie molto avanzate per quei tempi e si avvaleva di abili strategie militari. Le nostre conoscenze sulla letteratura, sul pensiero, sulla vita degli Ittiti, provengono in gran parte dalla decifrazione di incisioni cuneiformi su tavolette di argilla ritrovate negli scavi archeologici eseguiti nei territori dell’ antico Vicino Oriente.
Così ci è pervenuto un poema – l’Epopea di Gilgamesh – che racconta le mitiche imprese dell’eroe sumerico-babilonese (v.pp. 169-172).
Una parte del poema è riservata alla descrizione del Diluvio. Per salvare dalla distruzione il genere umano, il Noè sumerico, Utnapishtim, allestisce una nave e, tra le derrate, stiva grandi quantità di mosto, vino rosso, olio e vino bianco.28
Nelle pagine che illustrano l’evoluzione dell’uomo, l’olio diventa un segno di incivilimento. Il selvaggio Enkidu, amico di Gilgamesh, creato dagli dèi da in pugno di argilla, si riscatta dalla condizione bestiale in cui vive grazie all’aiuto e all’amore di una prostituta;
egli
si strofinò l‘irsuto pelame,
il pelo del suo corpo,
si unse d’olio,
divenne umano.29
In un altro testo mitologico viene narrata la storia della “caduta dell’uomo”.
Ad Adapa (Adamo?) gli dèi
quando una vest
Essi gli portarono egli l’indossò; quando olio
Essi gli portarono, egli se ne unse,
e gli del gli concessero ha saggezza.
Ma al saggio Adapa,
quando il pane della vita
Essi gli portarono egli non mangiò, quando l‘acqua della vita
Essi gli portarono, egli non bevve.30
Adapa, Adamo, l’uomo, aveva perduto l’occasione di diventare immortale, egli si era fidato di un dio ingannevole il quale gli aveva fatto credere che il pane e I’acqua della vita fossero invece pane e acqua di monte.
L’alimentazione degli Ittiti rientrava nelle regole Seguite dai popoli del bacino del Mediterraneo: per cereali, orzo e frumento, che venivano usati anche per la fabbricazione della birra; per bevanda, il vino principalmente, per cui era molto diffusa ha coltivazione della vite; per legumi, fave e piselli; per carni, pecore, buoi, agnelli; per olio comune, quello ricavato dalle mandorle, per olio fine, quello ottenuto dalle olive degli uliveti costieri la cui coltivazione venne, successivamente, incrementata dai Romani, particolarmente attorno a Melitene (Malatya); per dolcificante, il miele.
Delle varietà ittite dell’ulivo, a Roma era conosciuta la cilicia.
Scarse sono le testimonianze pervenuteci sia dagli scritti che dagli scavi sui traffici commerciali tra gli Ittiti e gli altri popoli.
Agli Ittiti apparteneva ha città di Catal Huyuk, “la più antica città del mondo dopo Gerico, e forse la più antica in assoluto”.31
L’impero Ittita si estinse più di tremila anni fa.
NOTE
1.Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XVII 7,67.
2.Bibbia: I Re VI 23-27 e 3 1-32.
3.Lehmann, Gli Ittiti, Milano, 1982, p. 47.
4.R. Gurney, Gli Ittiti, Firenze, 1962, pp. 21 e 25.
5.B. Pritchard, Ancient Near Eastern Texts, Princeton, 1955, p. 350.
6.R. Gurney, Gli Ittiti, Firenze, 1962, pp. 213-214.
7.Burkert, Mito e Rituale in Grecia, Ban, 1987, p. 214. Cfr. RD. Barnett, The Aegaean and the Near East, 1956, p. 219.
8.Hus, Les Hittites, in “Critique”, giugno 1960, p. 533.
9.R. Gurney, Gli Ittiti, Firenze, 1962, pp. 202-203; W. Burkert, Mito e Rituale in Grecia, Bari, 1987, pp. 7 1-72.
10.W. Ceram, Civiltà al Sole, Milano, 1978, p. 225.
11.B. Pritchard, Archeologia e Antico Testamento, Firenze, 1964, p. 184.p. 194.