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I ROMANI

 

 

Spesso nell’iconografia romana la pace veniva rappresentata da una serena figura di donna che teneva in una mano una cornucopia e nell’altra un ramo di ulivo o un caduceo, una verga di ulivo ornata con una ghirlanda.

Anche l’unione coniugale era raffigurata da una graziosa donna, incoronata di ulivo e di mirto (l’antico geroglifico del mirto rappresentava l’allegrezza). In Roma gli sposi no­velli portavano ghirlande d’ulivo.

Secondo Artemidoro, pure i morti, condotti al rogo per i’incenerimento, venivano in­coronati d’ulivo, come a voler sottolineare il valore da loro dimostrato nella lotta per l’esistenza.

Il venir meno della pace era dato dal segno funesto della folgore che spezzava una pianta d’ulivo.

La cerimonia della dedicatio, consacrazione di un tempio, era regolata a Roma da una legge, la Papiria, che richiedeva l’autorizzazione del popolo e del senato. Le sacerdotes­se, dopo aver inghirlandato tutt’attorno il tempio da consacrare, ne irroravano le crepidini con rami d’ulivo intinti in acqua lustrale. Ungevano poi con unguenti preziosi la statua del dio o della dea che mettevano a giacere su un sontuoso letto. Ogni anniversario si ri­peteva la cerimonia, accompagnata da giochi e da feste per il popolo.

 

Come già in Grecia, una corona d’ulivo, oppure un ramo d’ulivo, contrassegnava gli ambasciatori:

 

ramus manifestat olivae legatum. 

                                                                     (Stazio)

 

E Roma, nota in tutto il mondo allora conosciuto come città guerriera, aveva dedicato il suo tempio più maestoso, sulla via Sacra, alla dèa Pace, forse per spirito di compensa­zione.

Era questo un tempio, ce lo riferisce Galeno, dove vi erano in continuazione una folla di ammalati, che si affidava alla dea, e poi parenti, in cerca di grazia per i loro cari che non potevano lasciare il letto.

Le testimonianze a noi pervenute, attraverso scritti, rappresentazioni figurative su me­daglie, monumenti, bassorilievi, ci rivelano che gli antichi collegavano l’ulivo alla parte più lieta della vita, alla pace, all’innocenza, alla tranquillità, al benessere, sia materiale che spirituale: “unto nel corpo e nello spirito”.

Con le fronde dell’ulivo venivano incoronati i nobili cavalieri romani nella solennità delle idi di luglio (15 luglio), quando essi, per l’occasione, montavano a cavallo con in­dosso la trabea – un bianco mantello adorno di strisce trasversali purpuree – con tanta im­ponenza da destare l’ammirazione di tutta la città.

Presso la porta Trigemina di Roma vi era un tempio dedicato a “Ercole Olivario”, for­se perché le imprese del dio erano spesso collegate all’ulivo e la sua clava, piena di nodi, l’aveva ricavata da un grosso tronco d’ulivo selvatico.

 

Nel quartiere “Velabro”, tra il Campidoglio e il Palatino, avevano le loro botteghe, spesso oscuri bugigattoli, i mercanti d’olio, che venivano chiamati olearii. Costoro erano riuniti in corporazione e, data la grande richiesta d’olio, tenevano sempre alto il suo prez­zo, tanto che si era diffuso un detto – riportato da Plauto -, “in Velabro olearii”, che veni­va riferito a combriccole di speculatori.

Il popolo faceva un parco uso d’olio, sia per il prezzo sia per i ricordi del passato, quando, nella Roma dei poveri, era considerato un prodotto di lusso, permesso solo ai ric­chi.

Le distribuzioni di olio al popolo, piuttosto scarse e misurate durante la repubblica -Tito Livio ci riferisce quelle di Scipione l’Africano: Congii (congio = 1 3,24) olei in vicos singulos dati – divennero frequenti ed abbondanti sotto gli imperatori; si ricorda quella di Settimio Severo, oltremodo generosa: ut per quinquennium non solum urbis usibus, sed et totius Italiae, quae oleo egeret, sufficeret, da soddisfare non solo i bisogni della città ma anche di quella parte d’Italia cui manca l’olio.

Nella Roma stoica i costumi erano particolarmente severi e l’aliimentazione frugale. Bastavano un po’ di pane e olive o pane e miele per la prima colazione, jentaculum.

Pri­ma, quando non si conosceva l’ante della panificazione, si usava fare delle polente, pultes, di miglio, di orzo, di farro (quest’ultimo era una varietà di grano duro che andava abbru­stolito prima di essere ridotto in farina, parola derivata da far, farro).

“Grande era la sobrietà degli antichi nel prender cibo, attestando ad un tempo la pro­pria temperanza e la semplicità di vita. Non era infatti oggetto di scandalo per le persone più in vista pranzare e cenare in pubblico; e non si nutrivano certo di vivande delle quali dovessero arrossire mostrandole agli occhi del popolo. Erano così scrupolosamente tem­peranti che era più frequente si cibassero di polenta che di pane… La salute del corpo era assicurata dalla vita laboriosa, che costituiva la più sicura ed efficace garanzia; la loro buona salute era, per così dire, figlia della frugalità, la nemica dei banchetti lussuosi, dell’eccesso nel bere e dello smodato uso dei piaceri di Venere”.

 

Negli ultimi secoli della Repubblica, i giovanetti delle più illustri famiglie romane ce­navano con noci o con fichi secchi e lo sfarzoso Lucullo (106 – 57 a.C.) ricordava che suo padre aveva conosciuto il vino greco perché gli era stato prescritto dal medico.

Il prandium e la cena consistevano in verdure, condite con poco olio, formaggio, Ce­reali e frutta. Tra le verdure non mancava mai il prediletto aglio.

L’alimentazione si basava sul pane, spesso condito con latte o con olio. Le focacce di farina, miele e olio venivano offerte agli dèi.

Raramente si consumava carne o pesce; solo nelle feste il popolo poteva beneficiare della carne sacrificale.

Con il tempo l’uso del pesce nell’alimentazione arrivò alla portata di tutti e divenne così smodato da far dire a Giovenale: “La golosità ha già tutto spopolato il nostro mare a furia di gettar reti per fornire i mercati, e nel Tirreno non lasciamo ai pesci nemmeno il tempo di crescere”.

 

La sua rampogna non si ferma qui: “Guarda, che aragosta portano a Virrone (il padrone di casa), e che contorno di asparagi. Che coda! Par che voglia prendere in giro gli invitati, mentre passa trionfante tenuta alta dal servo gigantesco! A te portano un gambe­retto stretto tra due mezze uova, su un piattino che appena si vede: cena da funerale. Egli annega il suo pesce nell’olio puro di Venafro; a te, disgraziato, il boccone di cavolo smor­to che ti mettono davanti sa di lanterna. L’olio che ti danno è quello che esportano dall’Africa i bragozzi numidi dalla prora a punta, buono per immunizzarti dai serpenti velenosi: per cui a Roma nessuno vuole più lavarsi alle terme quando vi si bagna Boccàre (un numida, forse un re, che usava oli tanfosi)”.

A Roma arrivavano anche i deprecati – da Catone, in particolare – costumi greci ed orientali: “Nessun crimine manca, nessuna libidine, da quando la povertà romana è finita. Sui nostri colli sono venute a confluire Sibari, Rodi e Mileto, e, sfacciata e incoronata, Taranto, madida dei suoi vini”.

Nonostante che le coltivazioni dell’ulivo con quelle del fico, della vite, del frumento si fossero intensificate in tutta Italia, i loro prodotti non erano mai sufficienti a soddisfare le sempre maggiori esigenze di Roma; col tempo, quindi, si resero necessarie le importazio­ni che, tra l’altro, presentavano il vantaggio di un minor costo. “Tocca alla provincia ri­fornirci la cucina” diceva Giovenale.

E dire che l’olivicoltura era stata a lungo monopolio d’Italia, perché Roma, come del resto prima di lei Atene, non aveva mai avuto l’interesse di diffondere nelle sue colonie le piantagioni di ulivi e di viti.

Solo con l’età imperiale si nota un’inversione di tendenza: Roma diffonde nelle pro­vince, con la consulenza dei suoi gromatici e dei suoi ingegneri, coltivazioni di cereali, di viti, di ulivi.

E le province gareggiano nel riversare sul mercato nomano quanto dei -migliori frutti producono le proprie terre.

L’olio di oliva, di largo impiego sia in cucina che in medicina, veniva anche usato come combustibile per lampade e torce, come componente basilare d’unguenti e profumi, come emolliente per la pelle e per i capelli sofferenti per il vento ed il sole del Mediterra­neo.

Inoltre veniva usato per detergersi e nella lavorazione della lana.

 

Quando i Celti invasero Roma vi portarono il sapone, un liquido più o meno denso, fatto di cenere di legna di faggio e di sego, che serviva a rendere rosse le loro bionde chiome. Usato nelle Gallie più dagli uomini che dalle donne, a Roma si diffuse solo tra le donne.

Con ‘accrescersi della ricchezza, i pasti, che da frugali erano diventati, spesso, lucul­liani, portarono a un aumento delle malattie, causate, in particolare, dall’abbondanza dei condimenti, dall’incontinenza e dall’abbandono delle salutari abitudini di vita.

Si diffondeva, tipica di disordini alimentari, la gotta. Contemporaneamente si sviluppava la medicina, in mano però a gente servile perché gli aristocratici romani ri­fuggivano dalle arti liberali importate dalla Grecia. A fianco dei medici i ciarlatani tene­vano bordone; uno di essi pretendeva, addirittura, di curare quasi tutti i mali con il vino.

 

Nonostante che i ciarlatani fossero molto seguiti, essi rappresentavano un male minore in una città, dove, nonostante le invettive di Catone, si eseguivano strani riti orientali e si ricorreva alle anti magiche per combattere le malattie.

Una protezione, abbastanza valida, della salute pubblica, era rappresentata dalla gran­de diffusione sia delle pratiche igieniche sia delle discipline sportive.

 

Il ricco romano, simile in questo all’egiziano, non si accontentava del bagno setti­manale, ma lo faceva quotidianamente; la sua casa vantava parecchie sale da bagno, spes­so rifinite con marmi pregiati e con accessori d’ argento o, addirittura, d’ oro.

Questo però non lo esimeva di frequentane i ginnasi, luoghi di ritrovo che compren­devano le palestre e, a Roma, anche le terme.

Originari della Grecia, i ginnasi, sorti in Roma parecchio tempo dopo quelli greci, ben presto li superanono in numero e in magnificenza.

Il ginnasiarca, era il personaggio più importante e rappresentativo dei ginnasio; egli assumeva in sé le più alte cariche e, tra i suoi compiti, vi era quello di distribuire l’olio agli atleti.

Le palestre (in origine palaestra, voleva dire lotta e pabaestrita, lottatore) erano i luo­ghi riservati alla lotta e al pugilato, specialità agonistiche tenute in gran conto; nelle adia­cenze vi erano due camere: l’unctorium o unctuarium, dove ci si ungeva prima della lotta, e il conisterium, dove gli atleti, dopo l’agone e dopo che gli addetti, aliptae, avevano loro tolto il sudore e l’unto della pelle con lo strigile (specie di raschiatoio), per detergersi completamente usavano la sabbia, molto fine, che ricopriva il pavimento.

Vitruvio, architetto dell’età di Augusto, nel suo trattato “De Anchitectura” descrive i metodi di costruzione e le forme architettoniche più idonee per i ginnasi, per i vari reparti adibiti a palestre e a terme.

Sette erano i reparti delle terme:

  • apodyterium, lo spogliatoio dove i bagnanti si svestivano per passare, poi, nudi, nelle stanze interne;

  • frigida lavatio, bagno d’acqua fredda;

  • elaeothesium, stanza dove ci si ungeva d’olio;

  • propnigeum, vestibolo della camera calda (hypocausis);

  • tepidarium e laconicum, stanza per il bagno a vapore;

  • calida lavatio, bagno d’acqua calda;

  • frigidarium, stanza per rinfrescarsi

Secondo la descrizione di Vitruvio, in Roma i bagni degli uomini erano separati da quelli delle donne; in Grecia non era sempre così, in particolare a Sparta, dove i bagni erano comuni ai due sessi.

Già ai tempi di Varrone (I sec. a.C.) la ginnastica medica, che si basava principal­mente sui bagni, caldi e freddi, e sulle applicazioni di oli, di unguenti e sui massaggi, era scaduta in pratiche minute e frivole, cui però si dava grande importanza.

E molti erano diventati gli addetti:

iatraliptae,          medici che ordinavano gli oli e gli unguenti per i sani e per gli amma­lati;

unctores,            dipendenti dei medici, addetti alle unzioni;

unguentarii,        addetti agli unguenti, mercanti d’unguenti;

olearii,           mercanti d’olio ma anche gli schiavi che portavano le ampolle d’olio odoroso ai                           padroni nel bagno;

fricatores,           strofinatori che usavano lo strigile per detergere la pelle;

tractatores

tractatrices,        massaggiatori-massaggiatrici.

 

Seneca (prima metà del I sec. d.C.) si indignava per la provocante effeminatezza dei massaggiatori: “Dovrò io soffrire che… qualche uomo trasformato in donna distenda le delicate mie dita?”

Col tempo la ginnastica medica diventa un pretesto per altri scopi; ce lo documenta Marziale (2° metà del I sec. d.c.), a proposito di un voluttuoso ricco, cui: percurrit agili corpus arte tractatrix, manumque doctam spargit omnibus membris.

Le thermae, bagni pubblici, erano numerose a Roma, perché gli imperatori facevano a gara per costruirle sempre più belle; quelle di Nerone potevano accogliere 1600 bagnanti contemporaneamente, 3000 quelle di Caracalla e di Diocleziano; esse erano dotate di ampie piscine, alimentate con acqua dolce e con acqua di mane – frugi aqua marina et baln. aqua dulci .

Alle terme i Romani vi trascorrevano molto tempo perché erano luoghi di riunione, con biblioteche, con sale di svago, di ricreazione e di convito.

I cibi potevano essene molto raffinati e i banchetti durare a lungo, anche dal pome­riggio fino ai giorno dopo.

Mentre si assiste ad un progressivo abbandono delle sagge regole di vita, si può invece notare che le tradizionali abitudini alimentari persistono più a lungo presso la popolazio­ne; ce ne dà conferma uno scolano del IV sec. d.C. descrivendoci la sua colazione di mez­zogiorno: “Prendo pane, olive, formaggio, fichi secchi e noci”.

I Romani si ungevano abbondantemente, come, del resto, facevano i Greci.

Tito Livio, nella descrizione della sconfitta dei Romani sulla Trebbia, ci dà un esem­pio limite di come la trascuratezza di semplici atti pratici di cuna della persona possa compromettere grandi imprese.

Siamo nel 218 a.C., all’inizio di un inverno particolarmente freddo; da una parte del fiume sta l’esercito nomano al comando del console Sempronio, desideroso di attaccar battaglia, perché fiducioso in una facile vittoria, dall’altra Annibale che, al corrente di tale desiderio, gli tende un’insidia.

Attira i soldati romani, senza cibo – non era stato loro dato per non perdere tempo -, intirizziti dal freddo, al di là del fiume dalle acque ghiacciate; essi, fradici, raggiunta l’altra sponda, non riescono nemmeno a tenere le armi in pugno. E là li attendono, vigili, i soldati numidi di Annibale che avevano avuto il tempo d’accen­dersi il fuoco, di spalmansi d’olio le membra, per renderle più agili, e di rifocillarsi tran­quillamente – Hannibalis interim miles ignibus ante tentoria factis oleoque per manipu­los, ut mollirent artus, misso et cibo per otium capto –

Nel racconto popolare pare che la prima sconfitta in Italia di Annibale, avvenuta a Spoleto l’anno dopo, nel 217, fosse stata facilitata dal fatto che gli Spoletini, al limite del­la sopportazione dell’assedio, avessero versato sui nemici flotti di olio bollente.

La festa sacra più seguita ed attesa dal popolo di Roma era quella dei Saturnali, la più allegra dell’anno, che incominciava il 27 dicembre e si svolgeva per parecchi giorni. In quel periodo erano sospese le attività militari e lavorative, non si celebravano processi, né si eseguivano condanne a morte.

Durante queste feste gli schiavi e i padroni si scambiavano i ruoli, per cui si vedevano i ricchi servire i propri schiavi.

Si dice che Ercole cercasse di abolire l’usanza – risalente ai Pelasgi, antichissimo po­polo – dello scambio di ruolo tra padrone e schiavo, sostenendo che ne era stato travisato il significato perché Saturno, che istituì le feste, desiderava soltanto che si scambiassero come doni delle lucerne accese.

Ancora nella seconda metà del II sec. d.C., nonostante la disapprovazione di Tertul­liano, i Cristiani osservavano le feste Saturnali; esse vennero definitivamente proibite con il canone XXXIX del concilio di Laodicea, nel IV sec..

 

Le strade di Roma di notte, anche in epoca imperiale, erano al buio e il percorrerle comportava persino il rischio della vita.

Seguiamo Giovenale nella Roma notturna: “Pensa a tutti i diversi pericoli della notte:

la distanza da te alla cima dei tetti, da dove una tegola può sempre piombar giù a spaccar­ti la testa, i vasi crepati e notti che spesso cadono dalle finestre, guarda che segni lasciano sul marciapiede!… Tante volte puoi morire, quante sono di notte le finestre aperte sulla strada per la quale tu passi. Augurati quindi, e porta con te la miserevole speranza, che le finestre si accontentino di versarti sulla testa soltanto il contenuto dei loro catini.

E intanto ti viene incontro un ubriaco d’umore bellicoso… Ma può essere attristito da­gli anni o reso furente fin che vuoi dal vino, si guarderà bene dal molestare colui che un mantello purpureo e un lungo codazzo di accompagnatori, con gran numero di torce e lampade di bronzo, consigliano di lasciare in pace. Ma di me, che sono solito andare al lume della luna o al lumicino di una candela, cui debbo regolare di continuo lo stoppino, di me non si ha alcun rispetto”.61

I trasporti si effettuavano di notte, allo scarso lume delle lucerne. Continua Giovenale:

“a Roma la maggior parte degli ammalati muore per insonnia… E forse permesso dormi­ne nei locali presi in affitto? Solo ai ricchi è consentito il sonno, a Roma. Quindi in si può chiamare capitale d’infermi.

Senza contare l’andirivieni dei carri negli angusti budelli dei vichi e le grida dei mulattieri rivolte alle bestie che non vogliono andare avanti, grida tali da riuscire a svegliare pensino Druso (Claudio Druso imperatore, famoso per il suo sonno pesante)”.

Anche in propaganda elettorale avveniva di notte.

In tempo di elezioni – testimonianze ci sono pervenute da Pompei, in occasione di can­didature a pubblici uffici – una equipe di giovani, tra cui non mancava mai il laternarius, colui che reggeva la lanterna, Scriveva sui muri, freschi di calce, il nome dei candidati, a caratteri cubitali, con colore rosso o nero.

E’ merito di Traiano aver incominciato a provvedere al miglioramento della qualità della vita urbana, risanando l’ambiente dei poveri a Roma.

I benefici furono ben presto visibili e aumentarono le occasioni per mantenersi sani e decorosi; tra l’altro i bagni pubblici erano diventati gratuiti, grazie anche a private dona­zioni, e le elargizioni per il popolo comprendevano insieme a rifornimenti d’olio d’ oliva vari altri generi alimentari.

L’ ulivo in latino era chiamato olea, ab elaea, dice Varrone; se ne conoscevano parecchie varietà, di cui le più note, secondo Catone, Varrone, Plinio, Macrobio, Columella e Virgilio, erano: Posia o Pausia o Pusia (dai frutti adatti alla conservazione), Licinia o Liciniana (dall’ottimo olio adatto per fare profumi), Sergia o Sergiana (dall’olio pregia­to), Nevia, Culminia o Colminia, Cilicia, Orchas o Onchades o Orchites (dalle olive gros­se e carnose), Regia (dalle olive più belle e saporite), Radio, Murtea o Myrtea (dai frutti piccoli ma di sapore gradevole), Calabrica o Oleastrino, Salentina, Picena, Albicena o Al­bicenes (dalle olive color bianco-avorio).

 

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