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LETTERATURA SUMERICA-ITTITA

 

 

EPOPEA DI GILGAMESH (dal XIX al XII sec. a.C.)

La creazione dell’uomo, di Enkidu:

La dea madre, Aruru lavò le sue mani,

prese un grumo di creta e lo piantò nella steppa.

 

Essa creò un uomo primordiale, Enkidu, il guerriero,

seme del silenzio…

 

Tutto il suo corpo era coperto di peli,

la chioma era fluente come quella di una donna,

i ciuffi dei capelli crescevano lussureggianti come grano.

 

Egli non conosceva né la gente né il Paese; e

gli indossava una pelle di animale…

Con le gazzelle egli bruca l’erba,

con i bovini sazia la sua sete nelle pozze d’acqua.

Con le bestie selvagge, presso le pozze d’acqua,

egli si soddisfa.

( La Saga di Gilgamesh, Milano, 1992, p.127, “Epopea Classica”, tav. I, vv. 84-95)

 

Il sesso come rito di iniziazione alla civiltà:

Enkidu non sapeva

mangiare il pane;

a bere liquori

nessuno glielo aveva insegnato.

 

La prostituta aprì la sua bocca

e così parlò ad Enkidu:

 

“Mangia il pane, o Enkidu!

Esso è necessario per vivere!

Bevi il liquore, è un costume del Paese”.

 

Enkidu mangiò il pane

finché ne fu sazio.

Bevve il liquore:

sette boccali.

Ii suo animo si distese e diventò allegro,

il suo cuore gioì e il suo volto splendette.

 

Egli cominciò a spargere d’acqua

il corpo peloso;

 

egli lo unse con olio,

e divenne simile ad un uomo.

(Ibidem, pp.244-245, “Epopea Paleobabilonese”, tavoletta di Pennsylvania, vv. 89-108)

 

Il  re Gilgamesh e l’amico Enkidu sconfiggono il Toro celeste, mandato, per ucci­dere Gilgamesh, dalla dea Ishtar, furiosa contro di lui perché aveva osato respin­gere le sue offerte d’amore.

Ishtar salì sulle mura di Uruk, l’ovile.

Essa si piegò su se stessa ed esplose in maledizioni:

 

“Gilgamesh, proprio colui che mi ha umiliata, ha ucciso

il Toro celeste!”.

Enkidu udì queste parole di Ishtar,

ed allora strappò una spalla del Toro celeste e gliela

gettò in faccia, dicendo:

 

“Se io ti potessi raggiungere,

farei lo stesso anche a te,

e appenderei i suoi intestini alle tue braccia!”.

 

Ishtar raccolse attorno a sé le cortigiane,

le prostitute e le ierodule.

 

Essa intonò un lamento funebre per la spalla del Toro celeste.

Gilgamesh dal canto suo raccolse gli artigiani, tutti gli armaioli,

 

e gli artigiani ammirarono lo spessore delle corna del Toro;

di trenta mine di lapislazzuli esse erano fatte,

 

di due dita era il loro spessore,

esse avevano una capienza di sette gur di olio.

 

Egli le donò per ungersi al suo dio Lugalbanda.

(Ibid., pp.176-177, “Epopea Classica”, tav. VI, vv. 153-169)

 

Il pianto di Gilgamesh per la morte di Enkidu:

“Piangano per te gli anziani della spaziosa città, Uruk, l’ovile…

piangano per te gli abitanti della montagna, della collina…

piangano per te i cipressi e i cedri…

piangano per te gli orsi, le iene, i leopardi, le tigri, le gazzelle…

 

pianga per te il fiume sacro… il puro Eufrate…

pianga per te la tua balia,

che usava cospargere d’olio le tue natiche…

pianga per te la prostituta sacra,

per la quale hai unto il tuo capo con l’olio buono…

 

Quando le prime luci dell’alba apparvero, Gilgamesh…

riempì una coppa di corniola con miele;

riempì quindi con olio puro una coppa di lapislazzuli;

la decorò e al dio Sole l’offrì.

 

Gilgamesh, per Enkidu, suo amico, piange amaramente.

(Ibid., pp.189-190 e 194, “Epopea Classica”, tav. VIII, vv. 9, 11, 14, 16, 18, 19, 29-30, 33-34, 203, 206-208, 242)

 

Enkidu viene trattenuto agli Inferi:

Egli non ascoltò il consiglio del suo re Gilgamesh.

 

Egli indossò un vestito pulito

così essi riconobbero che egli là era uno straniero.

Con unguento prezioso egli si unse,

così essi, sentendo il profumo si accalcarono attorno a lui…

Egli prese in mano uno scettro,

allora tremarono davanti a lui gli spiriti.

Egli mise ai piedi i sandali,

e alzò la voce negli Inferi…

allora il lamento degli Inferi lo afferrò.

(Ibid., pp.336-337, “Poemi sumerici: Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi”, vv. 206-221)

 

Gilgamesh, affranto per la morte dell’amato amico, viene sopraffatto dalla paura della morte. Vaga allora per la steppa alla ricerca della vita, rappresentata dal “lontano Utanapishtim”, l‘antenato, l‘eterno. L’eroe del Diluvio gli racconta:

“Approntai tutto ciò che serviva

alla costruzione della nave:

tre sar di bitume grezzo versai nel forno,

tre sar di bitume fine impiegai;

le genti che portavano i canestri erano tre sar,

essi portavano l’olio:

tranne un sar di olio che i… hanno consumato,

due sar di olio sono stati messi da parte dal marinaio.

Come approvvigionamento macellai buoi,

giorno dopo giorno uccisi pecore;

mosto, birra, olio e vino

gli artigiani bevvero come fosse acqua del fiume…

 

Al sorgere del sole io feci un’unzione;

al tramonto Ia nave era pronta…

Sei giorni e sette notti

soffia il vento, infuria il diluvio, l’uragano livella il Paese…

Quando giunse il settimo giorno, feci uscire una colomba, la liberai…

un luogo dove stare non era visibile per lei, tornò indietro…

feci uscire una rondine, la liberai…

un luogo dove stare non era visibile per lei, tornò indietro…

feci uscire un corvo, lo liberai.

Andò il corvo, e questo vide che l’acqua ormai defluiva,

egli mangiò, starnazzò, sollevò la coda e non tornò”.

(Ibid., pp. 218, 220-221, “Epopea Classica”, tav. XI, vv. 63-76, 127-128, 145-154)

 

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