top of page

L’ULIVO NEL MITO E NELLA PREISTORIA

 

 

 

Ad Apollo, al dio che fa crescere gli alberi e che porta la civiltà — è simbolo del sole e della luce —, al dio amabile e di bell’aspetto che allontana i mali — è medico —, al dio che sa infondere virtù profetiche agli indovini — è oracolo —, al dio inventore della poesia e della musica — è cantore e musico —, al dio protettore delle anti e della scienze — è musa­gete ed astronomo, i Greci consacrarono l’alloro.

 

Eppure questo dio, figlio di Giove, il sovrano del cielo e della terra, e di Latona, la grande Madre ancora nelle tenebre, tra i tanti suoi epiteti annovera Lossias, che vuol dire ambiguo. Si riferisce questo cognomen alla sua arcaica origine, mezza barbara e mezza greca, oppure ai suoi oscuri vaticini di difficile interpretazione? Chissà.

 

Egli è giunto fino a noi in veste tutta greca, ma il suo nome Apullon è chiaramente di origine pregreca.

Prima che dai Greci, era conosciuto dagli Hittiti, dagli Hetei-Pelasgi, in Asia Minore, come Apulunas. (G.S. Kirk, La Natura dei Miti Greci. Bari, 1980, p. 271)

A questo dio era sacro l’ulivo, il selvatico ulivo.

 

Nelle antichissime feste cabirie, che si celebravano particolarmente a Samotracia, isola del Man Egeo, con cerimonie notturne e segrete, gli iniziati ai misteri dei Cabiri dovevano superare terribili prove prima di potersi fregiare della corona di rami d’ulivo selvatico, e solo così essere ammessi alle feste. (F. Noel, Dizionario di Ogni Mitologia, s.v. Cabirie)

 

Apulunas, l’arcaico iddio, assunto nell’avvincente mitologema greco come Apollo o Apolline, è dai tanti scrittori e poeti greci glorificato, ma, tra loro, sono ben pochi quelli che osano accennare alla sua origine barbara; i Greci, infatti, erano molto gelosi ed orgo­gliosi della boro grecità, tanto da volere tutti i propri iddii nati in Grecia.

Per capire la storia di Apollo dobbiamo quindi risalire alle sue origini.

 

Oltre Erodoto — secondo il quale tutto ciò che la Grecia aveva d’antico, comprese le sue divinità, era d’origine egiziana — occorre prendere in considerazione il mondo cultua­le degli Hittiti e dei Romani, popoli che ritenevano le divinità nettamente indipendenti dalle genti e dalle città che le onoravano.

 

E quando erano in guerra, e lo erano frequentemente, la loro prima mossa strategica consisteva nell’impadronirsi dei simulacri degli dèi protettori delle città nemiche: se si riesce a separare il popolo dal suo Iddio, lo si priva della propria identità religiosa e lo si condanna alla sconfitta; tale l’assunto.

 

Ma poiché era considerato sacrilegio prendere prigionieri gli dèi, e si credeva che nella statua abitasse il dio raffigurato, occorreva il consenso del dio, il quale, ovviamente, pote­va dare solo un muto consenso, ottenibile attraverso formule di seduzione, seductio, con inni e preghiere.

 

Il trafugamento vero e proprio, evocatio, era effettuato da prestanti giovani che ave­vano il compito di trasportare il simulacro del dio nella sua nuova patria, dove diventava oggetto di culto in magnifici templi, opportunamente innalzati, senz’altro più belli di quelli del luogo d’origine, tanto da richiamare ad onorarlo anche le popolazioni vinte da cui proveniva.

 

Oltre alla descrizione dell’evocazione del dio tutelare di una città nemica assediata, tramandataci da un testo ittita, abbiamo quella di Tito Livio relativa al trafugamento di Giunone da Veio: “Giovani scelti, dopo essersi lavati e purificati, in candida veste. entra­rono riverenti nel tempio, accostando dapprima religiosamente le mani… Poi, avendo detto uno di loro, sia perché mosso da divina ispirazione, sia per scherzare: “Vuoi venire a Roma, Giunone?”, gli altri gridarono che la dea aveva annuito. S’aggiunse in seguito al racconto il particolare ch’era stata udita anche la voce che diceva di si; quel che sappiamo di certo è che essa fu rimossa dalla sua sede senza grande impiego di mezzi, che fu leg­gera e facile a trasportarsi, come se venisse dietro da sé, e che arrivò intatta sull’Aventi­no, sua eterna sede”. (G. Furlani, Saggi sulla Civiltà degli Hittiti, Udine, 1939, p. 218; Tito Livio, Storia di Roma, V 22; Valerio Massimo, Fatti e Detti Memorabili. I 8,3)

 

Tanta paura suscitava l’evocazione presso i Romani, che essi ponevano la massima cura nel tener celato il nome del dio tutelare di Roma, noto solo ai grandi sacerdoti, i quali, anche nelle preghiere solenni, lo pronunciavano così sommessamente da rimanere inintelligibile. (II secondo nome di Roma era quello del dio tutelare. Pronunciarlo era ritenuto empio, e Valerio Sorano che osò farlo, pagò con la monte il misfatto. Plinio, N.H., III 65)

 

Del resto gli Egizi, anche loro timorosi dell’evocatio, giungevano a legare le proprie statue.

Ben diverso era il comportamento delle popolazioni semitiche della Giudea che, considerando un tutt’uno il dio e il popolo che quel dio venerava, usavano praticare, in caso di vittoria su un nemico, lo sterminio di entrambi.

 

Sentiamo Mosè: “Quando l’Eterno, l’Iddio tuo, avrà dato in tuo potere e tu avrai scon­fitte molte genti (Hittiti, Amorrei, Cananei, ecc.), tu le voterai allo sterminio… Demolirai i loro altari, spezzerai le loro statue, abbatterai i loro idoli, e darai alle fiamme le loro im­magini scolpite… Farai scomparire i loro nomi di sotto ai cieli”. (Bibbia: Deuteronomio VII 2, 5, 24)

 

Il nome degli Ittiti scomparve dalla storia dei popoli per millenni; concorse in questo il cupo anatema del legislatore d’Israele?

Apollo — che rientra invece negli schemi della mitologia classica — dopo essere scam­pato, grazie all’aiuto di un delfino, al naufragio della sua gente, lo troviamo trasferito, evocato, nell’isola, che gli darà la nascita greca, in uno splendido tempio, si dice, da lui stesso costruito — è anche architetto —, a Delo, la già fluttuante Ortigia, cantata in uno dei più antichi testi a noi pervenuti: l’inno omerico ad Apollo Delio. (miti Omerici, Firenze, 1990, pp. 23-41)

 

Quest’isola era rispettata persino dai nemici, anche da quelli che non avevano riguardi per alcuno, come dal Persiani, ad es., che, quando devastarono tutte le isole greche, ap­prodati a Delo con mille navi, la lasciarono intatta, non osando toccare nulla, benché il tempio di Apollo fosse colmo di ricchezze. (Valerio Massimo, I – dall’Epitome di Jan. Nepoziano – 6)

Il geografo Pausania (II sec. d.C.) (Pausania I 31,2) ci dice che i sacerdoti di Apollo, in Delo, rice­vevano dagli Ateniesi che li portavano da Prasie (porto dell’Attica) doni venuti da molto lontano, mandati dagli lperborei, mitico popolo al di là del vento di Borea, ché di questo popolo, così è nell’esegesi, altro non si sa (pare, tra I’altro, che il culto di Borea, vento del Nord, abbia avuto origine in Libia).

 

I doni consistevano in primizie che gli Iperborei facevano arrivare, coperte di paglia di grano, al loro dio evocato, attraverso un lungo viaggio reso possibile da vari popoli amici che si passavano l’un l’altro le primizie fino a farle arrivare al porto di Prasie.

Prima non era cosí, ci dice Erodoto, perché questi doni erano portati a Delo da due fanciulle iperboree, scortate da cinque giovani. “Ma, poiché coloro che erano stati inviati non tornavano più in patria” (Erodoto, IV 33), gli Iperborei, “Servi di Apollo”, volendo mantenere le of­ferte al loro dio senza peraltro perdere i propri figli, pensarono di rimettersi alla condi­scendente cooperazione dei popoli loro vicini ed amici.

 

Anche a Delfi, dove confluivano, come ad un centro, tutte le nazioni conosciute, con un mercato ed un asilo liberi e aperti a tutti, troviamo un altro antico e celebre tempio di Apollo, sede di anfizonia (lega religiosa), fiorente un secolo prima della guerra di Troia.

 

Dice Claudiano (Ciaudiano, Prologium de Consulatu Mallii, XVI 11-16, “Opera Omnia”, London, 1976) che due aquile, mandate da Giove, una verso est, l’altra verso ovest, a fare il giro del mondo, avevano impiegato lo stesso tempo e, tornate, si erano posate su Delfi, come a voler lì indicare il centro della terra.

 

Così nei penetrali del tempio di Apollo si conservava, come sacra ed associata al culto teogonico del dio, una candida pietra, a forma di cono smussato alla sommità, chiamata “onfalo”, ombelico. “O sancte Apollo, qui umbehicum terrarum obtines (conservi)”. Dalla pietra pendeva una fettuccia di lana bianca, come a voler indicare il cordone ombelicale, sulla quale erano raffigurate le due aquile.

 

Prima l’onfalo era chiamato Abadir, nome che, presso i Fenici, significava Padre magnifico. (F. Noel. Dizionario d’Ogni Mitologia, s.v. Abadir)

 

Ogni giorno, ma principalmente nelle feste, la pietra veniva unta d’olio e fa­sciata con delle bende di lana particolare.

Era un betile o il simulacro aniconico di Apollo?

 

Solo secoli dopo questo dio avrà, per sue effigie, dei capolavori di statuaria: dal beo­tico Apollo bronzeo (690 a.C.), magnifico esemplare di transizione tra l’epoca geometrica e l’arcaica, al celeberrimo Apollo del Belvedere, copia di un’opera di Leochares del IV sec. a.C., che rientra nei canoni di Lisippo e che è stata descritta dal Winckelmann in ma­niera talmente poetica da risultare, tale descrizione, degna della bellezza di Apollo.

 

Nelle pratiche religiose dei popoli del Mediterraneo e del Vicino Oriente è molto faci­le trovare descrizioni di libagioni di vino e di olio come offerte agli dèi; sono pratiche che risalgono ad ancor prima dell’età del Bronzo.

 

Oltre che sull’omphalós di Delfi — in un rilievo spartano è Artemide che lo liba —‘ l’olio viene versato sulle pietre ai crocicchi delle strade (v.p. 185); Giacobbe lo sparge sulla pietra da lui eretta e che chiama Bethel, casa di dio (v.p. 149); gli Ittiti poi diviniz­zavano le pietre su cui avevano versato l’olio o il vino delle libagioni e i Greci, nelle lekythoi funerarie, non facevano mai mancare l’olio ai defunti: grave sarebbe rimasta sul­la loro coscienza l’inadempienza di tale necessità.

 

L’ulivo selvatico lo ritroviamo, come emblema dei giochi panellenici, nel santuario di Olimpia, — celebre città della Grecia — sede della competizione. Erano questi giochi un motivo per ritrovarsi.

In effetti la Grecia non era un’unità politica, ma un’unità di grecità, molto più valida, cementata dalla religione, dalla lingua, dai costumi.

 

Nel 776 a.C. il re Ifito di Pisa (antico nome di Olimpia) fa un accordo con il legislato­re Licurgo, che govemava Sparta, e con altri re della Grecia, per una pacificazione allo scopo di permettere, durante ha festa sacra, l’ékecheirIa, che si celebrava in estate (Che si celebrava in estate perché discordi sono le opinioni degli studiosi sul tempo dell’ avvenimento: al solstizio d’estate — seconda metà di giugno, primi giorni di luglio —, Noel; nel mese di Ecatombeone e Metagitnione — luglio, agosto —, Enc. Treccani; a settembre inoltrato — tarda estate —, Diz. Enc. Treccani; ecc), lo svolgimento dei giochi in onore del grande dio Zeus.

Molto importante risulta la partecipazione della Magna Grecia se si considera che, nel VI sec. a.C., ben 17 vincitori dei giochi olimpici su un totale di 25 sono di Crotone; forse perché Crotone era sede di un’importante scuola medica, specializzata nella medicina sportiva.

 

II raggiungere, da così lontane regioni, il santuario di Ohimpia, era tutelato da una tre­gua sacra, (Plutarco. Licurgo, I 2 e XXIII 2 – 4) per cui diventava sacrilego chi intralciava il cammino o depredava i parteci­panti alla festa. Difatti, in quel periodo, i ladri non esercitavano per non incorrere nell’ira punitiva degli dèi. (P. Orlandini, Le Statue di Olimpia, Milano, 9/11 – II – 1982)

Ekecheirìa, la dea della tregua d’armi, aveva in Olimpia una statua che la raffigurava in atto di ricevere una corona d’ulivo.

E’ Pindaro che ci parla dell’ulivo sacro, del selvaggio Kallistéphanos, l’ulivo dalle bel­le ghirlande: (Aristotele – lo Pseudoaristotele dice che l’ulivo selvaggio d’Olimpia ili Kallistéphanos dalle belle   corone, aveva le foglie, al contrario di quelle degli altri ulivi, di colore più chiaro, grigiastro. nella pagina superiore e di colore più scuro, verdastro, nella pagina inferiore. Aristotele. On Marvellous Things Heard, in “Minor Works”, London, 1955, 834 a 51, p. 256).

 

Lo portò un giorno — trofeo splendido dei giochi d’Olimpia — il figlio di Amphitryon (Ercole) dalle ombrose fonti dell‘Istros 

e il popolo degli Iperborei servo d‘Apollo persuase con la parola: con mente leale chiedeva per il recinto

accogliente di Zeus una pianta, ombra comune per tutti e corona al valore.

(Pindaro, Olimpiche, ode III vv. 14/18).

 

Era il santuario di Olimpia, dove si svolgevano i giochi, spoglio d’alberi, senz’ombra, e il selvaggio Kallistéphanos, proveniente dalle ombrose fonti iperboree, lo avrebbe reso gradevole, formando un bosco: l’Altis. 

E’ questa dell’Altis, antico vocabolo che sta per alsos = bosco sacro, una esigenza molto sentita nell’antichità; risale ai popoli preellenici, micenei. Per loro, il carattere sa­cro di un santuario derivava dalle sue caratteristiche naturali, in particolare dai boschi: solo lì si poteva avvertire la presenza della divinità.

 

Questo concetto, fondamentale nel mondo antico, è presente anche nella Roma dell’età di Nerone; dice infatti Seneca: “Se ti troverai davanti ad un folto bosco… l’altezza delle piante, la solitudine del luogo e lo stupore che desta un’ombra tanto densa… in uno spazio aperto, ti persuaderà che lì c’è un dio”. (Seneca, Lettere a Lucille, IV 41,3)

Molti, considerano, ancora oggi, un bosco la più appropriata dimora di Dio.

 

Nell’altis del santuario di Olimpia non rimangono tracce del preistorico grande altare che si alzava, allo scoperto, tra gli ulivi selvatici, e che era dedicato al culto divinatorio del dio tutelare del luogo: Zeus; così del tempio e del simulacro del dio, che erano di le­gno e che vennero sostituiti con l’imponente tempio, il più importante dell’Altis, in pietra, costruito verso la metà del V sec. a.C., e con la statua colossale, seduta, di Zeus, posta in fondo alla navata centrale del tempio, fatta in oro e in avorio, crisoelefantina, incoronata di rami d’ulivo, opera di Fidia. (tav. I)

 

La statua destava tanta meraviglia che si consideravano sfortunati coloro che mori­vano senza averla vista. (Epitteto Dissertatzones I 6-23 recrimina Quae dementia ad Olympia proficisci vos, ut Phidiae opus  spectetis, ae si quis ante obitum non viderit pro infortunato se ipsum reputare?)

 

La fronda dell’ulivo selvatico, tagliata dalle piante dell’Altis con una piccola falce d’oro da un nobile fanciullo, serviva a formare l’agognato diadema per gli atleti vincitori dei giochi: “attorno ai capelli glauco ornamento d’ulivo”. (Pindaro, Olimpiche, ode III v. 13)

 

Era questo il più ambito riconoscimento. I doni cospicui che premiavano i vincitori delle gare atletiche, indette da parecchie città della Grecia, come corazze, scudi, va­sellame d’oro, schiavi, non valevano questo semplice serto d’ulivo. Là il valore venale, qua il merito della gloria. I più celebri scultori di Grecia erano chiamati a ritrarre i puri eroi di Olimpia; le loro statue, spesso dei capolavori, rimanevano ad adornare il celebre santuario.

 

L’inizio dei giochi è nel mito; primo vincitore su Mercurio, nella gara di destrezza, e su Marte, in quella della lotta, è Apollo che viene incoronato con l’ulivo selvatico. Era stato Ercole a promuovere tale usanza.

 

Primogenito di cinque fratelli, i Dattili, propose loro di esercitarsi, a Creta, loro patria, nella corsa; premio, una corona d’ulivastro; tra l’altro, sull’isola vi era tant’abbondanza di ulivo selvatico da potersi far letto con le sue foglie verdastre.

Fu ancora Ercole ad istituire i giochi olimpici e, dice Pausania, “stabilì che fossero celebrati ogni cinque anni, perché cinque erano i fratelli” (Pausania, V 7)(al ricominciare di ciascun quin­to anno, ovvero quadriennali).

 

Agli atleti vincitori di una corona era accordato l’onore di affiancare il re nella marcia contro il nemico. Racconta Plutarco che uno Spartano, al quale era stata offerta una gros­sa somma di denaro per non gareggiare ad Olimpia, non l’accettò; dopo che ebbe vinto con grande sforzo l’avversario, quando gli tu chiesto: “O Spartano, che cosa hai in più dalla vittoria?”, rispose con un sorriso: “Combattere contro i nemici schierato a fianco del re!” (Plutarco, Licurgo, XXII 8).

 

Quando Ercole sul Caucaso uccise l’aquila che divorava il fegato di Prometeo, libe­rando il benefattore dell’umanità che aveva osato rapire il fuoco agli dèi, si era prima ornato d’una corona d’ulivo (Apollodoro). E, morente per un fatale peplo fattogli indossare dalla moglie Deianira (alla quale tragicamente era stato fatto credere che l’indumento fos­se un sicuro mezzo d’incanto amoroso), chiese, per il fuoco del suo rogo, querce di profonda radice e selvatici ulivi vigorosi (Sofocle).

 

In Italia troviamo il mito di Apulus. Era questi un giovane pastore pugliese che, in­corso nell’ira di Apollo-Pane per aver insultato le Sue Muse-Ninfe, dal dio fu tramutato in ulivo selvatico, forse perche le sue foglie e i suoi frutti, amari, parevano consoni allo sgarbato comportamento del pastorello. (Ovidio, Metamorfosi, XIV vv. 5 17/526)

 

Dice Lucrezio: (Lucrezio, De Rerum Natura, VI, 970 – 972. Le capre sono invise a Minerva, protettrice del­l’ulivo. Varrone – De Re Rustica, I 2.19 – dice che l’ulivo diviene sterile se lo lecca una capra. Cfr. Plinio, VIII 204, XV 34 e XVII 237).

 

                                                              l‘oleastro piace alle capre a tal segno

                                                      che infuso tu lo diresti d’ambrosia e di nettare,

                                                        di contro per l’uomo non c’e foglia più amara. 

 

Un altro mito — che poi tanto mito non è — si riferisce ad Aristeo, o Agreo — figlio di Apollo e della ninfa Cirene — che vide la luce sul monte Cirene, in Libia.

 

Gli antichi considerarono Aristeo il primo uomo che seppe cagliare il latte, fornitogli dalle sue amate pecore, ottenendo il formaggio; che seppe coltivare gli ulivi ed estrarre l’olio dalle olive; che seppe allevare le api negli alveari, ricavandone il miele. Dice Pli­nio: “Oleum et trapetas Aristaeus… et mella… invenit” (Aristeo scoprì il trappeto, l’olio, il miele). (Plinio,N. H.,VII 199)

Nei miti che si riferiscono alla coltura dell’ulivo e della vite nella Libia, troviamo, ol­tre Aristeo, il dio Mercurio — lo stesso che Apollo, secondo Macrobio e Aristotele —‘ per gli Egiziani Thot o Theut, il saggio consigliere di Osiride: “Egli e non Minerva, come pretendono i Greci, trovò la pianta dell’ulivo”.

 

Oleae quoque plantam a Mercurio non a Minerva, quemadmodum Graeci dicunt, repertam (Diodoro).

Come Ercole e Mercurio anche Aristeo andò su e giù per le isole e le coste del Medi­terraneo, portando ovunque i suoi insegnamenti. In Sardegna e in Sicilia venne onorato come un dio dai coltivatori d’ulivo.

In Spagna, pare sia stata la colonizzazione fenicia a introdurvi l’ulivo domestico, il selvaggio vi era autoctono.

Quando i Romani conquistarono la Spagna traslitterarono i nomi oscuri e stranieri del­le città e delle genti che l’abitavano. Plinio riferisce che ai suoi tempi esisteva nella Beti­ca la città di Oleastro, che Tolomeo chiama Oleastron. Vi era inoltre Oliba in Tarragona. 

 

Minerva era chiamata Oleria da Oleros, città dell’isola di Creta, dove era oggetto di antico culto.

Le due fontane dell’isola di Delo, presso i cui alberi Latona, stremata, cercò il so­stegno e la forza per partorire Apollo e Artemide, si chiamavano una Elaia, che vuol dire ulivo, e l’altra Palma (Plutarco).

II barbaro culto di Latona proveniva dall’Egitto e dalla Pale­stina dove era venerata come Lat, la dea della fertilità dell’ulivo e della palma da dattero.

 

Forse risale alla stessa origine semantica di olea, il nome di Oleno, antichissimo poeta iperboreo, considerato anteriore a Orfeo, quindi a Omero. Egli, in Delfi, componeva gli inni per Apollo. Si pensa che a lui risalga l’epifania verbale degli dèi attraverso gli oracoli e lo stormir delle fronde.

 

Oleno era anche il nome di una città, appartenente al re Dessameno, amico di Ercole.

L’eroe, secondo alcuni autori, ne deflorò e poi sposò la figlia Deianira.

 

Riscontri di parecchi miti, riferibili al territorio della fascia sempreverde mediterra­flea, ci vengono dai reperti archeologici.

Semi di olea europaea var. oleaster, risalenti al Neolitico, sono stati rinvenuti in Spa­gna (assieme a piccole fave della specie viciafaba celtica) e in Puglia, a sud di Bari; risa­lenti all’età del Bronzo, noccioli, sempre della varietà oleaster, sono venuti alla luce a El Garcel, in Spagna, e presso Peschiera, nell’Italia settentrionale, in alcuni dei primi stan­ziamenti sedentari, presupposti indispensabili per I’affermarsi dell’esistenza civile. (J.G.D. Clark, Europa Preistorica, Torino, 1969, pp. 150 e 152)

 

Il processo di sviluppo dell’ulivo selvatico, strettamente unito a quello della vite selva­tica e del fico selvatico, molto facilitato dall’adattamento perfetto delle tre piante al clima mediterraneo, accompagnò l’inizio della diffusione della civiltà nel Mediterraneo, contri­buendo al sostentamento dei popoli coinvolti in questo grande evento.

 

Semi di ulivo domestico risalenti al 1200 a.C. sono stati ritrovati in Sicilia. Quest’ulti­mo ritrovamento rientra in un quadro generale che vede, alla fine dell’età del Bronzo, l’ulivo addomesticato lungo tutta la fascia della foresta sempreverde mediterranea: dal­l’Asia Minore, dal sud del Caucaso, dall’altopiano iranico, dalle coste della Palestina, fino all’ Africa settentrionale, all’Europa meridionale e al di là delle Colonne d’Ercole.

 

L’affermazione della pianta risale ai due ultimi millenni a.C.; la sua diffusione, dal­l’oriente all’occidente, si ha attraverso le civiltà detentrici dei commerci sul mare.

 

Il mito greco di Minerva — l’oleae invenhrix di Virgilio — risulta conforme ai corsi sto­rici: attorno alla metà del II millennio a.C., il barbaro re Cecrope, proveniente dall’Egitto, dalla città di Sais — che in fenicio vuol dire ulivo —, fondò dodici borghi nella petrosa re­gione dell’Attica, in Grecia, e fu scelto dagli dèi, per la sua grande saggezza, come arbitro nella contesa sorta tra Nettuno — Poseidone greco — e Minerva — Atena greca —, antagoni­sti nel desiderare d’aggiudicarsi l’onore di presiedere e di dare il nome alla principale città, tra quelle fondate da Cecrope, nell’Attica.

 

Scopo della gara: dotare la città di un dono il più utile e gradito possibile. Nettuno, percossa la roccia dell’Acropoli con il tridente, faceva sgorgare una fonte d’acqua di mare da cui compariva uno splendido cavallo, ma Minerva, contemporaneamente, faceva na­scere una meravigliosa pianta d’ulivo e la vittoria fu sua, “Sibi vindicat urbem”

 

Sull’Acropoli, ai tempi di Pausania si mostravano ancora i polloni dell’ulivo di Miner­va, i fori prodotti nella roccia dal tridente di Nettuno e i segni della pozza d’acqua da lui fatta scaturire.

“Minerva insegnò come si devono coltivare gli ulivi e come, dai loro frutti, estrarre l’olio; perché, prima che questa dea nascesse, esisteva sì quest’albero selvatico, confuso con gli altri, ma non lo si sapeva coltivare, né usare il suo frutto” (Diodoro).

Perciò l’ulivo domestico venne dai Greci consacrato a Minerva, a Pallade Atena, pro­tettrice dell’Attica, terra ferace d’ulivi.

Anche al sommo Giove era sacro l’ulivo; era quindi naturale che all’unica figlia, nata dal suo cervello in continuità d’intenti e di cognizioni, non da paragonare alle altre sue fi­glie generate dal suo sesso primordiale, spesso animalesco, a quell’unica figlia andasse l’eredità più cara, l’ulivo. E Atena, la glaucopide fanciulla, definita da Esiodo di assenna­to volere, è considerata da Fedro saggia perché prediligeva l’ulivo (v.p. 242).

 

In un altro mito, a monito dell’intangibilità degli ulivi, si narra che Allirozio, figliolo di Nettuno, furioso contro Minerva per la vittoria riportata su suo padre e deciso a vendi­carlo, si apprestava ad abbattere tutti gli ulivi dei dintorni di Atene, ma, appena iniziata l’operazione, la scure gli cadde dalle mani ferendolo mortalmente (Servio).

 

La petrosa Attica era diventata ricca e potente grazie ad una olivicoltura sacra e pro­tetta e la vicina Argolide ne poteva beneficiare. Seguiamo il racconto di Erodoto: “Agli Epidauri (da Epidauro, importante città dell’Argolide) la terra non dava alcun frutto. Al­lora per questo flagello gli Epidauri interrogarono l’oracolo di Delfi; la Pizia (sacerdotes­sa di Apollo) comandò loro di erigere Statue di Damia e di Auxesia (dee dell’accresci­mento e della fertilità) dicendo che, quando le avessero erette, le cose sarebbero andate loro meglio. Allora gli Epidauri chiesero se le Statue dovessero essere fatte di bronzo o di pietra, e la Pizia non permetteva né l’uno né l’altra ma solo legno di ulivo coltivato. Allo­ra gli Epidauri pregarono gli Ateniesi di conceder loro di tagliare degli ulivi, ritenendo certo che quelli fossero i più sacri — ma qualcuno dice anche che in quel tempo non c’erano ulivi in altra parte della terra al di fuori di Atene. Quelli risposero che l’avrebbero per­messo se ogni anno offrivano sacrifici a Atena Poliade e a Eretteo (Minerva protettrice della città ed Eretteo, mitico re di Atene); messisi d’accordo gli Epidauri ebbero ciò che desideravano ed eressero le Statue col legno di questi ulivi, e la loro terra ridivenne fertile”. (Erodoto, V 82)

 

Questi miti rispecchiano la realtà Storica dell’Attica che era celebre in tutta la Grecia per la coltivazione degli ulivi e per la produzione d’olio, uno dei più importanti prodotti dell’intero bacino del Mediterraneo, molto richiesto soprattutto dall’Egitto. Infatti il popolo egiziano, era quello che più risentiva della carenza del prezioso liquido. La coltiva­zione dell’ulivo in Egitto si riduceva ad una stretta fascia — dintorni di Abido e di Tebe — risultando il resto del territorio non idoneo a tale coltivazione.

Sebbene gli Egizi fossero riusciti ad estrarre olio dalle più diverse piante — dal sesamo (così pare chiamassero il papavero), dal ricino, dal cartamo (una specie di zafferano), dal­la rapa, dall’ortica (che coltivavano), dal navone —, essi stessi però li consideravano tutti malsani e li usavano semmai solo per uso esterno (Porfirio).

 

Continuavano invece a tenere in massimo conto l’olio d’oliva che importavano, oltre che dall’Attica, dalla Giudea.

Erano i popoli della costa orientale del Meditenaneo i maggiori produttori d’olio, ed erano i Fenici, famosi per le loro nere navi, avidi affaristi secondo i Greci (Omero), i più grandi trafficanti d’olio.

 

Queste sono le notizie sull’ulivo, sopravvissute e arrivate fino a noi dal misterioso re­gno della mitologia e della preistoria.

Se si segue l’ulivo nella storia dei primi popoli del Mediterraneo si può notare che ri­mane ancora circondato dall’antico fascino taumaturgico e divino proveniente dalla lotte dei tempi e che continua ad occupare posti di primaria importanza sia nella vita sociale che in quella privata.

 

Nella narrazione storica, che si sviluppa nelle pagine seguenti, sono mantenute in evi­denza le componenti culturali riguardanti l’ulivo, o a esso pertinenti, mentre sono tenute in sottordine, vale a dire elementari e appena tratteggiate, le informazioni di tempo-evento relative alle vicende storiche del vari popoli.

 

Per primi si presentano gli Egiziani, ritenuti una delle più antiche popolazioni del Me­diterraneo.

 

bottom of page