I CELTI
- Claudio D.
- May 29, 2015
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“Celti” – Keltoi e Galàti per i Greci, Galli per i Romani – era il nome dato ad antiche popolazioni abitanti non solo il nord ma I’ovest dell‘Europa (Erodoto) e le sponde del Danubio. In Spagna erano conosciuti come Celtiberi, perché considerati tutt’uno con gl’Iberi (provenienti dall’Africa?) e con i Liguri, i Ligyes (provenienti dall’Italia?). Anche le popolazioni germaniche appartenevano al ceppo celtico. Caligola, imperatore romano (12-41), quando s’accorse che mancavano dei prigionieri germanici per il suo “trionfo”, non esitò a scegliere tra i Galli i più prestanti ed alti e li obbligò “non solo a tingersi di rosso i capelli e a portarli rialzati sul capo, ma a parlare il dialetto germanico e a portare nomi germanici”.76 Secondo Dionisio d’Alicarnasso rientravano tra i Celti anche le popolazioni illiriche, tra le quali gli lapodi. I Celti, più che dalle stesse origini, erano uniti dal comune patrimonio di costumi, di credenze religiose e, in modo peculiare, dalla lingua. Veneravano la natura e ne onoravano gli dèi: il Sole, la Luna; per concezione atavica trascuravano i templi perché preferivano adorare gli dèi sotto le piante più grandi del bosco, appendendo ai loro rami le offerte votive. Chiamavano Bardi i loro poeti-cantoni e Druidi i loro sacerdoti – filosofi – teologi; da costoro vennero la più forte ostilità e resistenza all’invasione romana. Lo stesso Giulio Cesare considerava i soldati celti valorosi e arditi nel combattimento. I Celtiberi si opposero per due secoli alla conquista romana; l’opposizione fu veramente fiera tanto che le donne spagnole preferivano uccidere i propri figli piuttosto di lasciarli schiavi ai Romani. La Spagna, in una moneta di Adriano, è simboleggiata da una figura femminile, seduta, appoggiata a una montagna (i Pirenei) con mano un ramo d’ulivo; ai suoi piedi si vede un coniglio, cuniculus – così i Romani chiamavano sia il coniglio che le gallerie sotterranee da lui scavate e, per traslato, le gallerie di una miniera -. Da qui l’immagine poiché la Spagna era ricca di miniere d’oro, d’argento e di ferro. La Betica – per i Romani la Spagna meridionale – arricchiva Roma non solo spiritualmente con grandi uomini come Seneca, Lucano, Adriano, Traiano, Marziale, Columella, ma anche materialmente, con pregiati e abbondanti prodotti ricavati dal suolo e dal suo sottosuolo. Squisite qualità di olive, grandi quantità d’olio, ottenuto in modo molto raffinato, e prelibati vini venivano convogliati a Roma, insieme a preziosi metalli. Dei Celti si diceva che si truccassero, oltre a tingersi i capelli, che portavano lunghi, legati alla sommità del capo a coda di cavallo. Il poeta Properzio rimprovera la sua amante: Ora, o dissennata, imiti anche i Britanni con il volto dipinto, e ti diverti a colorarti i capelli d‘uno splendore straniero?… Il colore belgico stona con un volto romano. I
Celti si dipingevano con colone azzurro o con ocra non solo il viso ma tutto il corpo. Di alta statura, muscolosi, candidi di carnagione e dai capelli biondi, “portano rosseggiante la chioma, non solo come l’hanno per natura, ma anche con l’arte, cercando di accrescerne ha tinta più di quella naturale, servendosi di un ranno di calce, con cui spesso si lavano i capelli”. Così Diodoro Siculo. Aggiunge Plinio: “Giova anche il sapone. E questo un ritrovato dei Galli, formato da sego e da cenere, per aver rossi i capelli”. Con questo metodo i capelli si coloravano ma diventavano irti ed ispidi come crine di cavallo. Forti, coraggiosi, intemperanti per natura, i Celti incutevano tenore; lo rilevava già Esiodo (VIII sec. a.C.): conviene morire prima o nascere dopo di “quando ai nati biancheggenanno le tempie”. Era, infatti, opinione non solo comune che i figli dei Celti nascessero con i capelli bianchi, ma anche persistente se Diodoro Siculo, e siamo ormai nel I sec. a.C., scrive: i neonati dei Celti hanno generalmente i capelli bianchi. Del resto le donne celtiche, abili guerriere, alte di statura e “dagli occhi azzurri”, incutevano ancor più terrore degli uomini. Le descrive Ammiano Mancellino: “Non si potrebbe tenere testa a un Celta se avesse l’aiuto della moglie, la quale è più forte del marito, in particolare se adirata, perché allora, digrignando i denti e roteando le lunghe e bianche braccia, comincia a mollare formidabili pugni accompagnati da terribili calci”. Il capo dei Galli, che era anche gran sacerdote di Cibele, veniva chiamato Archigallo e proveniva da una delle più distinte famiglie celtiche. In un antico bassorilievo l’Archigallo viene raffigurato con in testa una corona d’ulivo ornata con tre medaglioni: quello centrale rappresentante Giove, i due laterali Atti, o Attis, pastore frigio, di rara bellezza, coinvolto nei culti orgiastici della dea madre Cibele. L’Archigallo tiene con la mano destra tre rami di ulivo e con la sinistra un vaso pieno di vari frutti, tra i quali le mandorle, prodotte, dice il mito, dal sangue di Atti, evirato. Narra Giuliano imperatore: “Attis, in seguito alla mutilazione (evirato per il misfatto d’aver violato la promessa di celibato, fatta alla Grande Madre, perché sedotto dai piaceri d’amore) arresta la sua corsa illimitata; anche a noi gli dèi comandano di eliminare la spinta verso l’infinito… Attis era uno di loro (un dio) e la Madre degli dèi non volle assolutamente che avanzasse più del necessario, e lo richiamò a sé”. Il ritorno alla Grande Madre, la “resurrezione di Attis”, veniva celebrato con gli Hilaria, feste che si tenevano il 25 marzo, giorno del rinnovellamento del sole e della natura. Per consolare i seguaci di Attis che piangevano la monte del dio, il sacerdote ungeva loro il collo con l’olio e le labbra con il balsamo, quindi sussurava parole di conforto: anche loro sanebbero risorti come il dio-uomo, trionfando sulla morte. I Celti onoravano Ercole, l’eroe-dio di Creta, che chiamavano Ogmion, pare dalla parola celtica ogus che vuol dire possente sul mare, e lo consideravano il protettore delle lettere e dei loro poeti cantori, i Bardi. Così avevano associato il dio a una consonante del loro alfabeto ma, essendo questa collegata a un mese dell’ anno e il mese a sua volta a un albero, Ercole – Ogmion si trovava a essere rappresentato dalla betulla o dall’ulivo selvatico. Perciò, nel calendario arboreo dei Celti o degli Iperborei l’ulivo selvatico o la betulla raffigurava il primo dei tredici mesi dell’anno, che cominciava due giorni dopo il solstizio d’inverno il 24 dicembre, e, nell’alfabeto arboreo, la prima consonante delle ogam, o rune, lettere dell’alfabeto. Anche gli antichi Irlandesi usavano l’alfabeto arboreo la cui composizione, che fa supporre un’origine frigia, corrispondeva a quella degli alfabeti pelasgico e latino: era cioè di tredici consonanti e cinque vocali. Adoravano le pietre e le elevavano creando monumenti che consideravano aventi natura sessuale: il dolmen, come l’utero della terra, cui si tornava da morti, e il menhir, come il fallo della terra che dava fertilità e vita. Altri monumenti sacri erano delle pietre arrotondate alla sommità o grezze o con incisioni simboliche, come la pietra Turoe, in Irlanda, risalente alla tarda età del ferro. Esse evocavano la divinità; la forma e il culto richiamavano quelli dell’omphalòs di Delfi. La più famosa era in Irlanda: essa riconosceva chi doveva essere il re, dirigeva l’economia della fecondità e garantiva le ordalie, i giudizi di Dio. Tranne che dai Celti dell’Iberia e del sud della Gallia, le pietre sacre per le cerimonie di libagione agli dèi erano unte con grasso animale. Con l’età del ferro i Celti si rivelarono abili fabbri; essi, non solo lavoravano il metallo per farne armi ed utensili, ma realizzavano in oro e in argento oggetti d’ornamento e monili decorati con raffinata maestria. I soggetti decorativi, generalmente fiori, piante o animali, erano interpretati nella loro essenzialità, stilizzati con disegni quasi astratti, in cui predominavano le linee curve, con il risultato che l’arte celtica tuttora affascina per la sua fantasia e originalità. Racconta Dionisio d’Alicarnasso che i Celti, prima d’invadere Roma, agli inizi del IV sec. a.C.,: “non conoscevano il vino e l’olio prodotti dalle nostre viti e dai nostri ulivi, ma utilizzavano come vino una maleodorante pozione di orzo fermentato in acqua, e come olio lardo di maiale invecchiato, disgustoso all’odore e al sapore. Gustando allora per la prima volta quei prodotti (portati tra loro dallo straniero Arrunte, che aveva abbandonato la patria, l’Etruria, perché vilipeso), è incredibile a dirsi quanto piacere ne traessero, e interrogarono lo straniero sulla terra e sulle popolazioni presso le quali nascevano entrambi i frutti. Il tirreno (Arrunte) spiegò loro che la terra che li produceva era vasta e fertile, mentre gli abitanti erano pochi e, in fatto di abilità militare, per nulla migliori delle donne; quindi consigliava loro non di acquistarli da terzi ma di andare a scacciare i proprietari di quei prodotti per goderne loro come proprio possesso”. Sotto il dominio di Roma, la Gallia diventò, dal I sec. a.C., grazie alle avanzate opere di ingegneria e di agraria dei Romani, una delle più ricche regioni dell’impero e il sud della Francia poteva vantare distese di oliveti e vigneti, lodati anche da Plinio e Columella. Dei Celti, degli Iberi, del Liguri (Ligyes per i Greci, o per alterazione fonetica Ligyes?), ancora oggi conosciamo ben poco; ma del loro periodo paleolitico, ci sono rimaste le più entusiasmanti raffigurazioni d’arte che mai uomo abbia saputo produrre: le pitture rupestri nelle caverne della Spagna e della Francia. E dire che tali capolavori furono eseguiti al lume puzzolente e torbido di lucerne, alimentate da grasso animale, forse di porco, loro cibo preferito. I nomi spagnoli dell’ulivo hanno due radici: fenicia e latina. Nella Spagna del sud l’olivo selvatico si chiama azebuche e queilo domestico, aceytuno. Nelle altre province, assieme a queste denominazioni è rimasta anche olivio. L’olio viene chiamato aceyte, ma i tre oli delle funzioni religiose cristiane sono chiamati oleos santos. Ruben Dario, poeta ispano-americano, così esprime l’emozionante visione della Spagna, la terra dei suoi padri: Aquì, junto al mar l
digo la verdad: siento en roca, aceyte y vino yo mi antigüedad..
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